X

Accadde Oggi – 19 luglio 1992: la strage di via D’Amelio, Paolo Borsellino e la sua scorta martiri contro la mafia

Imagoeconomica

Il 19 luglio 1992 è una data che l’Italia non dimenticherà mai. In quella domenica di trentadue anni fa, Paolo Borsellino, uno dei magistrati simbolo nella lotta contro la mafia, insieme ai cinque agenti della sua scorta – Agostino Catalano, Emanuela Loi (la prima donna a far parte di una scorta), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina – perse la vita nella strage di Via D’Amelio a Palermo. L’unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo, che stava parcheggiando una delle auto della scorta al momento dell’esplosione.

Le vittime di via D’Amelio

Fu un attentato mafioso vile e cruento che ha lasciato un segno indelebile nella storia d’Italia. Paolo Borsellino fu vittima di un attentato dinamitardo nella sua stessa città, una tragedia che si verificò solo due mesi dopo l’assassinio di Giovanni Falcone a Capaci. Le loro morti hanno lasciato un vuoto profondo e irrimediabile nella società italiana, segnando un punto di non ritorno nella guerra dello Stato contro Cosa Nostra.

La morte di Borsellino scatenò una massiccia ondata di indignazione e proteste in tutto il paese, con migliaia di cittadini che scesero nelle strade di Palermo per chiedere giustizia e condannare fermamente la presenza della mafia nel tessuto sociale italiano.

La stagione delle bombe in Italia

La strage di via D’Amelio si inserisce in un periodo turbolento in Italia, noto come la “stagione delle bombe“, compreso tra il 1992 e il 1993. Caratterizzato da una serie di attentati terroristici orchestrati dalla mafia siciliana, questo periodo ha visto l’uso di autobombe mirate non solo contro magistrati come Falcone e Borsellino, ma anche contro membri delle forze dell’ordine, politici e giornalisti. L’obiettivo di questi attacchi era destabilizzare lo Stato italiano e influenzare le sue politiche attraverso la paura e la violenza.

Il periodo iniziò con l’assassinio del giudice Falcone, avvenuto il 23 maggio 1992 a Capaci, seguito proprio due mesi dopo dalla morte di Paolo Borsellino. Due omicidi che furono una risposta diretta alle loro incisive indagini antimafia. Questi attacchi provocarono una reazione senza precedenti da parte dello Stato, inclusa l’istituzione del regime carcerario duro per i detenuti legati alla mafia e l’invio di truppe militari in Sicilia per rafforzare la sicurezza. La lotta contro la criminalità organizzata si inasprì portando all’arresto di Salvatore Riina, capo di Cosa Nostra, durante l’Operazione Vespri Siciliani.

I timori di Paolo Borsellino prima dell’attentato

Paolo Borsellino, già consapevole dei rischi che correva per il suo impegno contro la mafia, viveva sotto la costante minaccia delle organizzazioni criminali. Dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, il giudice sapeva di essere un obiettivo chiaro di Cosa Nostra, un “condannato a morte” come aveva dichiarato pochi giorni prima dell’attentato. Nonostante ciò, continuò imperterrito nella sua missione, spinto dalla sua ferma convinzione nella giustizia e nel dovere nei confronti della società italiana.

L’attentato a Borsellino fu preparato minuziosamente nel luglio 1992 da membri di Cosa Nostra. Giuseppe Graviano e altri membri della mafia compirono sopralluoghi a Palermo, procurarono un’autovettura da utilizzare come bomba, e furono organizzati telecomandi e trasmittenti per il detonatore. Raffaele Ganci, coinvolto nel pedinamento, si assicurò che tutto fosse pronto per il giorno dell’attentato.

19 luglio 1992: la strage di via d’Amelio

Il 19 luglio 1992, fu il giorno stabilito per l’attentato. Dopo una mattinata trascorsa con la sua famiglia a Villagrazia di Carini insieme alla moglie Agnese e ai figli Manfredi e Lucia, Borsellino si diresse a Palermo accompagnato dalla sua scorta. Alle 16:58, mentre si avvicinava alla casa della madre in Via D’Amelio, una Fiat 126 carica di esplosivi detonò, uccidendo sia il magistrato che i cinque agenti della sua scorta presenti.

L’agente Antonino Vullo, l’unico sopravvissuto, descrisse l’orrore dell’esplosione in questi termini: “Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto…“.

L’attentato lasciò sbigottita non solo la città, ma l’intera Italia. Particolarmente significativo fu il commento amareggiato del magistrato Antonino Caponnetto, che, dopo aver visto la salma di Borsellino, dichiarò disperato alle telecamere: “È finito tutto!” mentre stringeva le mani del giornalista Rai Gianfranco D’Anna.

Il governo italiano rispose con il decreto-legge “Operazione Vespri Siciliani”, che autorizzò l’invio di truppe militari in Sicilia e l’istituzione del regime di carcere duro per i detenuti mafiosi.

I funerali al grido di “fuori la mafia dallo Stato”

I funerali dei cinque agenti di scorta di Borsellino si tennero il 21 luglio 1992 nella Cattedrale di Palermo, segnati da una partecipazione massiccia e proteste veementi contro la mafia e l’inefficienza dello Stato nel proteggere i suoi ero al grido di “fuori la mafia dallo Stato“.

L’albero della pace di via D’amelio

Pochi giorni dopo, il 24 luglio, si tennero i funerali privati di Paolo Borsellino nella chiesa di Santa Maria Luisa di Marillac, una cerimonia disadorna e periferica scelta dalla famiglia del giudice. La moglie di Borsellino, Agnese, rifiutò il rito di Stato, accusando il governo di aver fallito nel proteggere suo marito. Vi parteciparono comunque circa 10 mila persone. L’orazione funebre fu pronunciata da Caponnetto, il giudice che aveva lavorato con Falcone e Borsellino, il quale incitò tutti a continuare la lotta contro la mafia: “Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi“.

Un anno dopo la strage, Maria Pia Lepanto, madre del giudice Borsellino, piantò un albero di olivo proveniente da Betlemme nel cratere di via D’Amelio come simbolo di pace e giustizia.

Le indagini e i processi

Le indagini sulla strage di Via D’Amelio furono inizialmente confuse, ma nel corso degli anni diversi membri di Cosa Nostra furono processati e condannati. Le indagini portarono a galla anche il sospetto di una possibile connessione tra la trattativa Stato-mafia, poi smentita dai fatti e dalle sentenze giudiziarie, e l’attentato a Borsellino, alimentando controversie sulle “collusioni” tra la politica e la criminalità organizzata in Italia.

Il processo “Borsellino uno” iniziò nel 1994 con Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino arrestati per il furto dell’auto usata nell’attentato. Scarantino accusò membri della mafia locale, incluso Salvatore Profeta. Nel 1996, Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto furono condannati, ma le sentenze subirono modifiche in appello nel 1999. Il processo “Borsellino bis” del 1996 portò a ulteriori condanne nel 2002, confermate nel 2003, mentre il processo “Borsellino ter” del 1998 condannò altri membri di Cosa Nostra nel 1999 e in appello nel 2002. Nel 2008, Gaspare Spatuzza collaborò, portando a nuove indagini e condanne nel processo “Borsellino quater” nel 2017 e 2019, con Scarantino beneficiato dalla prescrizione.

Diversi autori hanno parlato della strage di via D’Amelio come una “strage di Stato”. Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha dichiarato: “Quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. […] Hanno messo in galera un po’ di persone – tra l’altro condannate per altri motivi e per altre stragi – e in questa maniera ritengono di avere messo una pietra tombale sull’argomento. […] Quello che noi invece cerchiamo in tutti i modi di far capire alla gente […] è che questa è una strage di Stato, nient’altro che una strage di Stato“.

Il muro della legalità a Palermo

Il movimento delle agende rosse: un impegno per la verità e la giustizia

Uno degli aspetti più controversi legati alla morte di Paolo Borsellino è la scomparsa della sua agenda rossa, in cui annotava informazioni riservate e riflessioni personali. Dopo l’attentato, l’agenda sparì misteriosamente dalla sua borsa, sollevando sospetti e interrogativi mai risolti. Questa mancanza ha alimentato teorie su complotti e depistaggi e ha portato alla nascita del Movimento delle Agende Rosse.

Fondato da Salvatore Borsellino il 15 luglio 2007 con la lettera “19 luglio 1992: una strage di Stato”, il Movimento si batte per la verità sulla strage di via D’Amelio e per la trasparenza nelle istituzioni. Denunciando un accordo di non belligeranza tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, chiede risposte sulle omissioni di sicurezza e sui contatti istituzionali di Paolo Borsellino prima della sua morte. Il Movimento organizza manifestazioni, incontri e dibattiti per mantenere alta l’attenzione sulla lotta alla mafia e per chiedere giustizia per le vittime di Cosa Nostra. Sostiene le istituzioni nella ricerca della verità sui mandanti della strage, e promuove “Scorte civiche” per proteggere magistrati, forze dell’ordine e giornalisti impegnati nella lotta alla criminalità organizzata. Ogni anno, il 19 luglio, gli aderenti si ritrovano a Palermo per commemorare le vittime e ribadire la richiesta di giustizia.

L’eredità di Paolo Borsellino

A trentadue anni dalla sua morte, Paolo Borsellino rimane un simbolo di coraggio e determinazione nella lotta contro la mafia. Il suo sacrificio ha ispirato generazioni di italiani a difendere i valori della giustizia e della legalità, nonostante le sfide e le minacce. L’impegno di Borsellino resta un faro di speranza per un’Italia libera dalla corruzione e dall’illegalità.

Murales di Falcone e Borsellino a Palermo
Related Post
Categories: Politica