Siamo due ex consulenti della McKinsey, dove il motto «up or out» («cresci o esci») ha avuto per quasi cinquant’anni un significato ben preciso: o il consulente continuava a crescere in capacità di leadership, oppure doveva abbandonare McKinsey e costruirsi una nuova carriera (spesso di grande prestigio) in un’altra organizzazione. L’idea di applicare lo stesso motto all’economia italiana ci è venuta alla fine del 2011, quando la crisi del debito ha fatto riscoprire agli italiani la vulnerabilità della nostra economia e il problema della crescita. Diversi lettori ci hanno detto che questi problemi li avevamo già affrontati in Meritocrazia e Regole, e ci hanno suggerito di riprendere quelle idee per farne un vero e proprio «manifesto per la crescita».
Oggi anche il governo Monti ha posto la crescita come priorità, ma agli italiani non è ancora chiara l’entità della trasformazione culturale necessaria e dunque faticano a capire se le riforme avviate centreranno l’obbiettivo. Il problema – Monti lo sa bene e lo ha detto a chiare lettere – è che la crescita in Italia è bloccata da anni e ci vorrà del tempo per spezzare le incrostazioni, soprattutto culturali, che bloccano lo sviluppo della nostra economia. Italia, cresci o esci! punta in primo luogo a denunciare questi pregiudizi, e vuole spiegare cosa significhi adottare per davvero, anche in Italia, la «cultura della crescita», che è basata su una competizione che rispetta le regole, che genera meritocrazia ed eccellenza e dunque permette di valorizzare il capitale umano, il vero motore della crescita in una società postindustriale.
Crediamo che questa riflessione sia utile per diverse ragioni. La prima è che noi italiani non abbiamo ancora compreso la vera natura del malessere economico che affligge oggi il nostro paese. Molti italiani credono a una serie di «falsi miti» che vorrebbero spiegare le cause della crisi e offrire le ricette giuste per superarla.
Il primo mito riguarda l’origine dei problemi dell’Italia: per molti, la colpa sarebbe della crisi internazionale, della globalizzazione, della finanza anglosassone o di qualche altro «lupo cattivo» che preferiscono accusare pur di non vedere i mali di casa nostra. Chi sostiene questa posizione non ha capito (o fa finta di non capire) che la nostra crisi non è affatto causata dalla crisi globale del debito, ma dall’incapacità di crescere della nostra economia, una situazione di stallo che dura da più di vent’anni. La crisi della finanza mondiale scoppiata nell’ormai lontano 2008 ha soltanto fatto scoprire al resto del mondo che l’impoverimento progressivo degli italiani rischiava di diventare un problema anche per loro. Ma agli italiani l’importanza della crescita, non solo sui mercati finanziari ma nella vita di tutti i giorni, spesso sfugge. Per questo si cercano altri responsabili e altre vie di uscita. Ma non ce ne sono: o si cresce o si esce.
Il secondo falso mito è che l’Italia possa recuperare benessere e superare i suoi attuali problemi riportando indietro le lancette dell’orologio e riscoprendo le radici del suo sviluppo nei decenni passati: il valore del «piccolo è bello», la forza del «territorio», la solidarietà familiare e aziendale come rete di protezione al posto di quella creata dallo stato o dalle risorse individuali. La realtà è molto diversa: l’economia mondiale, con la globalizzazione, e la società italiana, con l’invecchiamento della popolazione, sono cambiate in modo irreversibile. L’Italia non ha saputo adeguare il suo modello economico, ma deve imparare a farlo. Perché la nostra economia non cresce? Non perché non nascono imprese, ma perché queste non crescono. E non possono farlo perché sono state strangolate dal motto «piccolo è bello», che ha impedito loro di trasformarsi. E l’esigenza di «proteggere le nostre leggendarie PMI»? Le nostre PMI sono realtà che spesso, purtroppo, sopravvivono solo perché evadono le tasse e pagano poco i loro lavoratori. Le migliori devono invece essere aiutate a crescere, quelle inefficienti devono chiudere o essere assorbite. Un altro falso mito afferma che per crescere dobbiamo «copiare il modello tedesco». Ma oggi questo progetto non vale più, il nostro modello economico «manifatturiero» è lontanissimo da quello tedesco, che è fatto di aziende più grandi, più tecnologiche e dotate di migliore organizzazione, ma soprattutto perché ormai le «fabbriche» costituiscono solo una piccola parte di una moderna economia.
Ma ci sono diversi altri falsi miti che circolano nel nostro paese. Per esempio il tanto invocato rilancio del «made in Italy», che però ha fatto il suo tempo e deve oggi essere sostituito dal «created in Italy», concepito in Italia. E l’esigenza di eliminare l’articolo 18 per permettere alle fabbriche in crisi di licenziare liberamente? Il danno dell’articolo 18 non è certo quello di impedire alle fabbriche in crisi di licenziare (cosa che possono fare più facilmente che in Francia), ma di limitare la meritocrazia: da un lato impedisce alle grandi imprese di licenziare un lavoratore assenteista e assumerne uno bravo che vuole lavorare, dall’altro lato ha creato un’apartheid iniqua e che genera inefficienza tra milioni di lavoratori iperprotetti e milioni di precari senza alcuna protezione.
Un altro mito pericoloso afferma che la concorrenza, il rispetto delle regole e la meritocrazia sono valori «anglosassoni », ai quali la nostra economia non potrà mai ispirarsi perché sono estranei al DNA degli italiani. Chi crede in questo «mito» giustifica l’evasione fiscale, il lavoro nero, i privilegi delle tante piccole corporazioni, il familismo, le raccomandazioni… Ed è convinto che cercare di darsi le regole giuste sia pari a una fatica di Sisifo: meglio tenerci le regole che abbiamo, magari chiudendo un occhio su chi fa il furbo. In realtà il DNA degli italiani va benissimo: quando ci troviamo in un ambiente dove le regole funzionano e vengono rispettate, le rispettiamo anche noi. Quando lavoriamo all’estero, per esempio. Quando facciamo carriera nelle grandi multinazionali, accettando la sfida della meritocrazia. Quando ci affacciamo con le nostre imprese sui mercati internazionali accettiamo e tante volte vinciamo la sfida della concorrenza. Il problema è in Italia. Perché tanti italiani non credono che le regole e la meritocrazia possano essere fatte funzionare anche da noi. Non hanno capito che le regole devono essere rispettate non per osservare un principio etico, ma perché conviene. La vera carenza etica della nostra economia non sono i manager che guadagnano troppo (anche se a volte è vero, visti i risultati), sono le imprese che sopravvivono grazie al sommerso e al «nero».
Ma c’è un’altra ragione per cui oggi è importante una riflessione sulla crescita: dobbiamo articolare una visione a lungo termine sulla crescita dell’Italia. Cosa che oggi manca. Questa visione del nostro futuro non è fatta solo di percentuali di PIL e di provvedimenti legislativi: deve diventare un racconto del paese che vogliamo creare nei prossimi anni. Deve apparire chiaro e convincente. Dovrebbe idealmente generare negli italiani una spinta emotiva, un desiderio di cambiare e di azione. Ciò che il governo Monti può fare in pochi mesi per stimolare la crescita (ammesso pure che faccia tutte le cose giuste) ha un limite, che appare sempre più evidente. Il rischio è che, a lungo termine, gli italiani, che non si rendono conto della trasformazione epocale necessaria, vedano solo i costi delle iniziative varate dal governo, dato che non capiscono le cause di fondo della mancata crescita. E soprattutto ritengano che il pericolo di diventare una «nuova Grecia» sia definitivamente scampato. E a quel punto la politica, che oggi sostiene Monti, ritornerà al populismo e ricomincerà a vendere sogni e promesse irrealizzabili.
Il tema chiave di questo libro sarà dunque come ottenere una trasformazione epocale della nostra economia. Sarà però necessaria una nuova leadership: per raggiungere questo obbiettivo però non basta certo cambiare la legge elettorale o fondare un nuovo partito che sia «espressione della società civile»: bisogna proprio cambiarla la «società civile». Serve un nuovo capitalismo, con una nuova generazione di imprenditori. Serve una nuova generazione di civil servants. Servono soprattutto giovani italiani che si rendano conto che il paese non cambierà se anche loro non cambieranno e non saranno più attivi. È proprio ai giovani italiani che è diretto questo libro. Per coinvolgerli. Per spiegare loro ciò che sta veramente succedendo nel loro paese e quanto tutto ciò è diverso da quello che sentono ripetere tutti i giorni. Per convincerli che la trasformazione, ancorché epocale, è davvero possibile. E per dare loro suggerimenti concreti su ciò che devono fare per crescere e non «uscire».