Matteo Renzi il rottamatore, e Roger Abravanel lo smitizzatore. Entrambi, insieme con l’economista Tito Boeri e il presidente di Impregilo Claudio Costamagna, sono intervenuti nel blindatissimo convegno “Sbloccare la crescita dell’Italia: un progetto rivoluzionario” all’Hotel Four Season di Milano, nel cuore del quadrilatero della moda e di quella Milano chic che ha visto poi il sindaco di Firenze incontrare anche la crème degli industriali del Nord in una discussa cena a porte chiuse.
Diversi erano però gli obiettivi dei due relatori: il candidato alle primarie del Pd (che nel suo programma ha ripreso molti temi illustrati nei saggi di Abravanel) ha riscaldato la solita minestra contro la classe dirigente, contro il ’68 e la cultura del 18 politico, contro la burocrazia e l’immobilismo politico-istituzionale. Il mirino era perciò indirizzato contro più soggetti, spesso indeterminati, a incominciare dalla vecchia guardia del suo stesso partito. Ben più mirato invece l’intervento di Abravanel: il manager e scrittore di origine libica ha smitizzato buona parte dell’operato del governo Monti, ribaltando molte delle tesi che nell’opinione pubblica circolano ormai come assodate.
“Monti è certamente sulla giusta direzione – premette Abravanel -, non possiamo però illuderci che alcuni provvedimenti del governo possano risolvere per magia tutti i problemi. È da vent’anni che l’Italia non cresce. La vera priorità è la crescita: senza sviluppo sarà impossibile riconquistare la fiducia dei mercati internazionali, ridurre il debito pubblico e la pressione fiscale, creare nuovi posti di lavoro”.
I miti anti-Monti di Abravanel sono sei: il primo è quello sulla riforma del lavoro, che l’Esecutivo ha interpretato come uno strumento per rendere più facili i licenziamenti, favorendo lo sgravio per le imprese. “In realtà in Italia è già molto facile licenziare, più che in Francia”, la vera soluzione è migliorare la competitività e la meritocrazia (concetto chiave secondo l’ingegnere economista), eliminando la condizione di apartheid di 9 milioni di italiani (“mentre gli altri 12 milioni di lavoratori non hanno interesse che le cose cambino”) attraverso il contratto unico per tutti i dipendenti: “Tutti licenziabili, ma tutti con un vero sussidio di disoccupazione”.
Poi c’è il grande tema dell’evasione fiscale, che è stato affrontato instaurando uno stato di semi-polizia. “E’ proprio la formula che è sbagliata: in Italia abbiamo Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate, due organismi separati, che ci costano e fanno fatica a coordinarsi, mentre per esempio negli Usa c’è un solo ente che raggruppa le due figure, che costa meno e che recupera il quadruplo del sommerso rispetto a noi”.
Altro mito sbagliato secondo Abravanel è quello secondo cui le liberalizzazioni si fanno creando nuovi concorrenti, o secondo cui la spending review sia sinonimo di tagliare gli sprechi, o ancora che la lentezza del sistema giudiziario si risolva, come ha fatto il ministro Severino, chiudendo 30 Tribunali. “Non c’è niente di più sbagliato: le liberalizzazioni si costruiscono con vere riforme dei vari settori, penso per esempio al modello inglese per le assicurazioni Rc auto; la spending review richiede oltre ai tagli una vera leadership e trasparenza sui costi e le decisioni; per la Giustizia il cambiamento deve essere culturale”.
Infine c’è il mito ormai annoso per cui alla scuola servono più fondi: “E’ una falsa leggenda: siamo perfettamente in linea con i budget degli altri Paesi”. Semplicemente, secondo Abravanel, andrebbe in questo come in altri casi alimentata la cultura della meritocrazia (oggetto dell’ultimo saggio scritto con Luca D’Agnese, “Italia, cresci o esci!”), per esempio attraverso l’istituzione di fondi legati ai risultati.
Prima ancora che nelle fila del Governo, per lo scrittore di famiglia ebraica ci sono da sempre dei miti che circolano tra l’opinione pubblica, la stampa, persino tra alcuni addetti ai lavori. Uno di questi è proprio quello che lega la meritocrazia al fatto che i giovani laureati non trovino subito lavoro. “La realtà è che mancano i laureati eccellenti: in Italia solo il 5,8% prende il titolo di studio a pieni voti, mentre in Finlandia per esempio oltre il 60%”. Poi c’è la falsa credenza per cui lo sviluppo sarebbe frenato dalle troppe regole, mentre il problema secondo Abravanel è che le regole “sono regole sbagliate e non rispettate”. Quante volte, poi, abbiamo sentito dire che la crisi italiana è colpa di quella internazionale, o che è dovuta all’enorme debito pubblico? Smitizziamo: l’Italia non cresce da 20 anni, ben prima del fallimento di Lehman Brothers nel 2008, e il rapporto debito-Pil è ben migliore in altri Paesi che però continuano a crescere, vedi Giappone ma anche Usa.
“Infatti la nostra recessione non è peggio di quella di altri – spiega ancora Abravanel davanti alla platea di economisti e imprenditori del Four Seasons -, il nostro problema è che il 38% della popolazione fra i 15 e i 65 anni è assolutamente inattiva, che dunque produciamo poco e soprattutto che produciamo bassa gamma. Per fare un esempio, siamo un Paese che produce Fiat Punto, non Mercedes”.
Già, perché il vero grande mito da estirpare è quello per cui “piccolo è bello”, per cui ci vorrebbe un ritorno al passato, al territorio, alla valorizzazione del made in Italy e delle piccole aziende. “No, mettiamocelo in testa: piccolo è brutto. Innanzitutto, il made in Italy non esiste più: al massimo c’è il ‘conceived in Italy’, come avviene per il settore della moda per esempio. E poi si parla tanto di copiare il modello tedesco, che in effetti pullula di piccole azienze, ma si dimentica che la Germania ha 10 volte il nostro numero di grandi aziende, e 6 volte quello delle medie”.