Oggi in Italia la disoccupazione è un problema drammatico, ma ogni anno oltre 300.000 giovani trovano un lavoro dopo gli studi. Com’è possibile fare parte di questo gruppo di fortunati? E come si può trovare il lavoro «giusto»? Innanzitutto liberandoci dai tanti luoghi comuni e pregiudizi che condizionano le nostre scelte. Provando a conoscere quel mondo aziendale che oggi in Italia offre il 70 per cento dei posti di lavoro e che sta passando con una rapidità impressionante da un modello industriale, fatto di fabbriche e forza lavoro specializzata nell’eseguire compiti e procedure, a uno postindustriale, dove le procedure le eseguono i computer e chi lavora deve saper interagire con gli altri e prendere decisioni in autonomia.
Questo nuovo mondo richiede nuove competenze, che la scuola italiana troppo spesso non riesce ancora a formare. Crediamo quindi sia necessario aiutare studenti, genitori e insegnanti a pensare in modo diverso, a non fermarsi agli stereotipi, a conoscere prima di scegliere e a formarsi in modo adeguato. Perché oggi il lavoro c’è, anche se spesso i nostri giovani sono impreparati a intercettarlo. Questo accade soprattutto perché, a differenza di quel che si crede, le competenze richieste oggi a chi lavora non sono di tipo tecnico, specialistico o tecnologico, ma consistono nella capacità di interagire in modo efficace con l’organizzazione aziendale e con le sue regole.
Questo significa possedere la cosiddetta «etica del lavoro», che vuol dire sapere cosa fare e farlo anche senza un capo che ci sorveglia, essere in grado di risolvere problemi e di interagire con gli altri. Sono le soft skills, per usare un inglesismo molto diffuso tra gli addetti ai lavori. Solo con queste competenze le aziende riescono a valorizzare il capitale umano, che è la vera fonte di vantaggio competitivo nella società postindustriale, in cui le capacità delle persone contano più delle macchine e delle fabbriche. Il vero motivo per cui, al di là della crisi, la disoccupazione giovanile in Italia è così drammaticamente alta è che le aziende non trovano abbastanza giovani con queste capacità.
Il curriculum scolastico, nel nostro Paese ancor più che in altri, non è orientato a formarle, non stimola l’iniziativa, l’interazione, la responsabilità e lo spirito critico degli allievi. Serve un vero e proprio curriculum del Ventunesimo secolo e tocca ai ragazzi e ai loro genitori occuparsene. Ciò vuol dire concentrarsi sulla scelta del percorso di istruzione più adatto e delle sedi migliori per realizzarlo: ci sono in Italia differenze enormi tra le varie scuole e università, e sono ancora troppo pochi quelli che scelgono in modo informato. Ma è anche necessario fare esperienze formative al di fuori delle istituzioni scolastiche, nel mondo del lavoro o del volontariato. La nostra prospettiva potrebbe rischiare l’accusa di «aziendalismo», di glorificare il mondo delle aziende svilendo quello della scuola. Quest’accusa nasce da una visione, che giudica la scuola e l’azienda su un presunto piano morale: la scuola è «buona» perché pubblica, gratuita ed essenziale nell’educare gli studenti, mentre l’azienda è «cattiva» perché punta al profitto sfruttando i dipendenti, l’ambiente e i consumatori.
Questa prospettiva non è utile, soprattutto a chi cerca lavoro. È vero, alcune imprese italiane sono arretrate, non rispettano le regole e non contribuiscono alla crescita dell’economia, e noi stessi l’abbiamo denunciato più volte. Tuttavia chi vuole iniziare a lavorare non può prescinderne e deve chiedersi in che modo potrà essere utile all’azienda che lo assume. Chiunque offra qualcosa, deve capire in profondità ciò di cui l’altro ha bisogno: è il principio essenziale non solo dell’economia di mercato, ma delle relazioni umane. Allo stesso modo, il mondo della scuola deve chiedersi di cosa veramente hanno bisogno i suoi studenti. Non per respingere i valori della cultura e adottare un atteggiamento biecamente utilitaristico, ma perché la formazione, anche culturale, deve rispondere alle esigenze della società.
La nostra tesi è che a un giovane con la giusta determinazione, un atteggiamento positivo (quello che gli anglosassoni chiamano can do attitude) e solide capacità, anche un Paese poco meritocratico come il nostro offra oggi un’opportunità senza precedenti. A condizione però che si dia il giusto significato al termine «meritocrazia», che significa competizione, ricerca dell’eccellenza. E soprattutto essere individualmente responsabili di ciò che si fa. Crearsi degli alibi è un errore formidabile che può condizionare la vita. Questo saggio è organizzato in quattro sezioni. Nella prima mostriamo quali sono i pregiudizi e i luoghi comuni che portano a scelte sbagliate, quelle che «fabbricano» disoccupati. Nella seconda descriviamo i cambiamenti nel mondo del lavoro, l’impatto che hanno sulle competenze oggi necessarie alle aziende e sulla difficoltà dei giovani a trovare un impiego. Nella terza analizziamo la capacità della scuola italiana nel formare queste competenze, e troviamo un quadro seriamente preoccupante. Nella quarta parte cercheremo, infine, di dare qualche suggerimento per creare un efficace curriculum del Ventunesimo secolo, attraverso la scelta della scuola, dell’università, delle esperienze extrascolastiche, fino alla ricerca del lavoro.