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Abete (Assonime): “La Tobin Tax all’italiana svantaggia la nostra piazza finanziaria”

Lo scorso 20 settembre, con la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) 2012, il Governo ha rivisto le previsioni di finanza pubblica. Grazie all’importante azione di risanamento realizzata e nonostante il rilevante peggioramento del quadro macroeconomico, è previsto un significativo miglioramento dei saldi di bilancio che consentirà al nostro paese di rispettare gli impegni presi in sede europea.

L’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche è previsto scendere al 2,6 per cento del Pil nel 2012 e all’1,6 per cento nel 2013, corrispondente a un sostanziale pareggio in termini ‘strutturali’- calcolato, cioè, escludendo gli effetti del ciclo economico e delle misure una tantum. L’avanzo primario è previsto crescere dall’1,1 per cento del Pil nel 2011 a circa il 4 per cento nel 2013 e al 4,8 per cento nel 2015. La ricostituzione di un consistente avanzo primario rappresenta la via maestra per ridurre il debito. L’alienazione del patrimonio pubblico può contribuire, purché perseguita con determinazione e continuità su un orizzonte pluriennale, ma non fornisce rapide scorciatoie.

Secondo la relazione tecnica predisposta dalla Ragioneria, il disegno di legge di stabilità, che qui siamo chiamati a commentare, implica un aumento dell’indebitamento della PA nel 2013 (2,9 miliardi), mentre restano invariati i saldi degli anni successivi (Tabella allegata).

Sul fronte delle entrate, gli interventi principali riguardano la riduzione di un punto percentuale delle aliquote Irpef applicabili ai primi due scaglioni di reddito, la sterilizzazione dell’aumento di 1 punto dell’aliquota Iva ordinaria e ridotta nel 2013, rispetto al previsto aumento di 2 punti, e la detassazione del salario di produttività. Le risorse sono reperite principalmente attraverso la franchigia sulle deduzioni e il tetto alle detrazioni Irpef, l’introduzione di una imposta sulle transazioni finanziarie e la stabilizzazione dell’incremento delle accise sui carburanti. Dal settore delle imprese maggiori entrate derivano dall’aumento dell’acconto sulle riserve tecniche delle assicurazioni e dalla riduzione della deducibilità delle spese auto. Riduzioni di spesa colpiscono principalmente gli enti territoriali e il settore sanitario, mentre si stanziano nuovi fondi per alcuni investimenti significativi (Mose, Anas, rete ferroviaria).

 

Le entrate

Per quanto riguarda l’impianto della legge di stabilità, Assonime ha più volte segnalato l’opportunità di un riequilibrio del carico fiscale dalle imposte dirette alle imposte indirette. Tale riequilibrio rappresenta una tendenza in atto in molti paesi europei e appare un obiettivo tanto più valido in Italia dove, secondo gli ultimi dati Eurostat disponibili, nel 2010 l’incidenza delle imposte dirette sul totale delle entrate fiscali e contributive era pari al 34,9 per cento, rispetto alla media europea del 32,9 per cento. Le imposte indirette hanno, invece, un peso significativamente inferiore rispetto alla media europea.

Dunque, la scelta del Governo di un riequilibrio tra imposte dirette e indirette è in sé condivisibile; ma la riduzione di un punto percentuale delle aliquote Irpef applicabili ai primi due scaglioni di reddito implica una significativa perdita di gettito (cfr. Tabella) che si traduce in riduzioni di imposte spalmate su un’area molto vasta di contribuenti, rendendone trascurabile l’effetto sui redditi individuali. Il beneficio è ulteriormente mitigato dalle norme che introducono un tetto di 3000 euro alle detrazioni e una franchigia di 250 euro per gli oneri deducibili. Queste misure esercitano effetti redistributivi difficili da valutare e, in qualche caso, opinabili.

Se si vuole procedere in questa direzione, sarebbe preferibile studiare interventi più mirati a favore dei contribuenti con redditi bassi, inclusi gli incapienti. Quanto agli interventi su detrazioni e deduzioni, l’Assonime ha già sostenuto l’opportunità di semplificare il sistema attraverso la trasformazione delle detrazioni in deduzioni e l’introduzione di un unico tetto onnicomprensivo alle deduzioni, eliminando i tetti specifici. Il tetto proposto dal disegno di legge di stabilità appare troppo contenuto, con effetti indesiderabili sulle famiglie meno abbienti.

Analogamente, se è condivisibile l’intento di aumentare il gettito raccolto attraverso l’Iva, forse meno felice appare la scelta di farlo attraverso l’aumento dell’aliquota ordinaria. L’Assonime ha in più occasioni indicato l’opportunità di procedere ad un maggiore allineamento delle aliquote super-ridotta e ridotta a quella ordinaria, destinando parte del gettito così raccolto all’erogazione di contributi diretti ai meno abbienti. L’identificazione dei destinatari di tali contributi può contare su strumenti incisivi, quale l’indicatore della situazione reddituale e patrimoniale delle persone (Isee), che possono consentire di superare l’insufficiente capacità discriminatoria delle dichiarazioni Irpef. L’accertamento dei requisiti e l’erogazione dei contributi monetari potrebbero essere demandati al sostituto d’imposta, ove possibile, oppure all’Inps, che già svolge analoghe funzioni riguardo ai pensionati.

Ricordo che il recente Rapporto della missione di assistenza tecnica del Fondo Monetario, venuta in Italia per valutare la delega fiscale in corso di esame in Parlamento, stima per l’Italia un divario tra gettito effettivo e potenziale dell’Iva molto elevato, dell’ordine di 8 punti di Pil. Di tale divario, oltre la metà è attribuibile alla presenza di aliquote agevolate ed esenzioni, il resto all’evasione.

            Sottolineo anche che non è affatto scontato, come molti pensano, che l’aumento dell’Iva determini un aumento dell’inflazione, dato il basso livello della domanda di consumi, così come non è scontato che ne risulti una contrazione della domanda. Se l’aumento delle aliquote Iva più basse fosse destinato almeno in parte a trasferimenti monetari ai meno abbienti, l’effetto sulla domanda aggregata potrebbe risultare positivo, grazie alla elevata propensione a spendere dei destinatari del contributo.

Per quanto riguarda la detassazione del salario di produttività, questa misura è uno strumento cruciale per spostare la contrattazione dal livello nazionale al livello aziendale e aumentare la produttività. Per questo abbiamo più volte invocato un deciso rafforzamento di questo strumento attraverso l’eliminazione dei tetti di importo e di reddito e la sua trasformazione in un incentivo permanente, in modo da modificare stabilmente le aspettative delle imprese e dei lavoratori. L’incentivo dovrebbe applicarsi al solo salario ordinario di produttività negoziato, escludendo gli straordinari; in tale modo si potrebbe anche favorire l’aumento dell’occupazione. Le risorse per finanziare questa operazione potrebbero derivare dal disboscamento delle agevolazioni alle imprese suggerito dal Rapporto Giavazzi. Qualora il vincolo di bilancio rendesse impossibile estendere la detassazione a tutte le imprese, questa potrebbe essere concessa selettivamente alle imprese che aumentano l’occupazione media e gli investimenti rispetto agli ultimi anni.

Non siamo in generale contrari all’introduzione di un’imposta sulle transazioni finanziarie, come delineata nella proposta di direttiva in discussione a livello europeo. Una tale imposta può ridurre il volume e la velocità degli scambi, gettando, come diceva il Professor Tobin, granelli di sabbia nelle ruote dei mercati finanziari e, dunque, scoraggiando le attività di trading più rischiose e migliorando la stabilità del sistema finanziario. Se i proventi dell’imposta fossero destinati al finanziamento del bilancio europeo si realizzerebbe una vera risorsa propria grazie alla quale il bilancio dell’Unione inizierebbe a svincolarsi da quello degli stati membri.

Ma la realizzazione di quest’imposta pone complessi problemi applicativi. L’imposta delineata dal disegno di legge di stabilità – attraverso la quale il Governo mira a raccogliere 1,1 miliardi di euro l’anno – colpisce le transazioni di mercato secondario aventi ad oggetto azioni e altri strumenti finanziari partecipativi emessi da soggetti residenti in Italia, comprese le transazioni eseguite all’estero quando almeno una delle parti sia un soggetto residente in Italia. Avrebbe un’aliquota – fissata allo 0,05 per cento – diversa da quella indicata nella proposta della Commissione europea. Poiché il costo delle transazioni si aggira tipicamente intorno allo 0,1 per cento, la nuova imposta lo aumenterebbe del 50 per cento, con un significativo effetto di scoraggiamento per la nostra piazza finanziaria. Infine verrebbe introdotta prima che l’Unione europea abbia completato il negoziato in corso in sede comunitaria.

            Pertanto, non si può sottovalutare il rischio che molte transazioni possano essere dirottate su mercati esteri esenti e vengano affidate a soggetti non residenti. L’effetto dell’imposta sarebbe di deprimere la nostra piazza finanziaria che già attraversa una fase non brillante, rendendo più acuto lo svantaggio concorrenziale rispetto ad altri paesi dell’Unione europea. La possibilità di raccogliere le entrate previste appare in dubbio.

Sull’ambito di applicazione dell’imposta osserviamo che sono colpiti anche i contratti derivati, comunemente utilizzati dalle imprese commerciali per coprirsi dai rischi relativi a valutazioni di merci, interessi e tassi di cambio. Il carico impositivo sui derivati (e dunque sulle imprese) è amplificato dal fatto che la base imponibile dell’imposta è costituita dal valore nozionale, cioè da un valore molto più ampio del valore reale del contratto, rappresentato dal differenziale delle valutazioni delle merci e degli altri elementi sottostanti il dichiarato. Sono invece escluse dall’imposta le transazioni su titoli di Stato: tale esclusione non pare coerente con l’obiettivo anti-speculativo e rivela il timore che aumenti il costo per l’emittente – cosa che in generale non si può escludere.

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Le spese

Negli obiettivi del Governo, nel 2012 la spesa al netto degli interessi scenderebbe in termini nominali per il terzo anno consecutivo; la spesa corrente al netto degli interessi rimarrebbe costante, dopo i modesti incrementi degli ultimi due anni. La stabilizzazione della spesa corrente al netto degli interessi è un risultato importante, visto che proprio il mancato controllo di questa componente ha costituito nell’ultimo decennio il principale elemento di debolezza della gestione dei conti pubblici italiani.

L’attività di spending review avviata in luglio deve proseguire e, anzi, essere approfondita. In questo contesto, assumono grande importanza le misure di razionalizzazione e privatizzazione delle partecipazioni e del patrimonio immobiliare pubblici. Il decreto sulla spending review ha previsto, tra l’altro, la realizzazione da parte di Consip di un programma per “l’efficientamento delle misure di dismissione di beni mobili” e l’obbligo di dismissione delle società pubbliche, anche locali, che operano prevalentemente nei confronti della PA. Tutte le amministrazioni devono inoltre presentare entro tre mesi un piano di ristrutturazione e razionalizzazione delle società controllate. Vanno ora adottate le misure di attuazione.

Anche le misure per la razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni, attraverso un maggiore ricorso alla Consip e la definizione di costi standard, vanno nella giusta direzione. Nel disegno di legge di stabilità sono contenute anche altre disposizioni condivisibili, volte a conseguire risparmi limitando l’acquisto di immobili, di arredi e di vetture, nonché le locazioni passive da parte delle pubbliche amministrazioni. È parimenti apprezzabile che le misure di contenimento degli acquisti si applichino anche alle autorità indipendenti, le quali, sebbene siano ormai finanziate in misura prevalente a carico del mercato, tuttavia gestiscono tali risorse per finalità pubbliche, e devono impiegarle in modo efficiente.

Per conseguire risultati duraturi, gli interventi per il contenimento della spesa non possono basarsi solo su blocchi temporanei, i quali alla scadenza possono dar luogo a forti rimbalzi; ciò è particolarmente vero per le spese per le retribuzioni, soprattutto se non si riuscirà ad evitare di corrispondere arretrati per gli anni di blocco contrattuale. Una riduzione permanente di queste spese, che consenta nel tempo anche aumenti adeguati dei trattamenti individuali, non può che basarsi sulla riduzione degli organici; questa è in parte già in corso, attraverso il freno del turnover, la revisione delle piante organiche e l’utilizzo flessibile del personale nel caso di accorpamenti di strutture, ma dovrà essere intensificata. Molte informazioni indicano, ad esempio, rilevanti eccessi di personale nelle amministrazioni regionali, rispetto al fabbisogno per lo svolgimento dei compiti istituzionali.

Al riguardo suscita preoccupazione la tendenza delle amministrazioni locali ad assorbire i minori trasferimenti riducendo i servizi erogati e aumentando le imposte, ed evitando di ridurre le spese di personale e di apparato. Elemento cruciale per limitare questa tendenza è l’applicazione quanto più estesa possibile dei costi standard alle gestioni pubbliche. È importante che l’introduzione dei costi standard sia accompagnata anche dalla definizione dei livelli corrispondenti di prestazione, per evitare che venga penalizzata la qualità dei servizi erogati. I costi standard devono essere determinati attraverso meccanismi che escludano il negoziato politico, riferendoli alle amministrazioni più efficienti nell’erogare le prestazioni ed evitando di prendere come riferimento anni di aumento anomalo della spesa (per esempio il 2010 nel comparto sanitario). Vanno adottati rapidamente i provvedimenti sulla metodologia da seguire per definire il fabbisogno standard per le diverse funzioni svolte dagli enti locali (il primo provvedimento, su polizia locale e servizi per lo sviluppo economico e il mercato del lavoro, è previsto a breve).

Più in generale, nell’ottica di un contenimento stabile e duraturo della spesa,  è importante la modifica dell’articolo 81 della Costituzione che, in linea con gli impegni assunti con il Fiscal Compact, ha introdotto nel nostro ordinamento l’obbligo del bilancio in pareggio. Questo vincolo e l’esigenza di rispettare gli obblighi economici e finanziari derivanti dall’Unione europea sono stati opportunamente estesi anche alle regioni e agli enti locali tramite la modifica degli articoli 97 e 119 della Costituzione.

Resta l’esigenza di prevedere espressamente il divieto di ripiano dei disavanzi delle regioni e delle amministrazioni locali contratti in violazione del patto di stabilità (pur con appropriate misure di transizione per gestire le situazioni molto compromesse già esistenti). Queste previsioni potrebbero essere inserite nella legge prevista dall’ultimo comma del nuovo articolo 81, che fissa il contenuto della legge di bilancio e i criteri per assicurare l’equilibrio tra entrate e spese e la sostenibilità del debito del complesso delle amministrazioni pubbliche, in via di elaborazione.

Inoltre, per prevenire nuovi casi di crisi finanziarie di regioni ed enti locali, vanno rigorosamente attuate le nuove misure che prevedono la pubblicazione di una relazione di fine mandato da parte degli amministratori regionali e locali e sanzioni molto più dure di quelle applicate in passato, inclusa l’ineleggibilità e l’interdizione dalle cariche in enti vigilati o partecipati da enti pubblici.

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