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A Roma il buon governo è un miracolo: in 150 anni è successo solo tre volte

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Nei centocinquant’anni dopo che è diventata capitale, Roma è stata mal governata, salvo alcune breve parentesi che complessivamente coprono appena un ventennio. Il giudizio degli storici su questo è concorde. La politica non è stata in grado di affrontare e risolvere i problemi – primi fra questi promuovere una struttura produttiva moderna e resiliente e una crescita urbana più equilibrata e inclusiva – che le diverse fasi di sviluppo della città hanno via via posto agli amministratori. Soltanto tre eccezioni possono essere ritrovate nel lungo arco di tempo che ci separa dalla presa di Porta Pia: la sindacatura di Nathan, i cinque anni di Argan-Petroselli e la prima sindacatura di Rutelli. Sembrano esservi, pur nelle ovvie differenze storiche e politiche, alcuni tratti positivi che accomunano le “sindacature felici” e su cui può essere utile condurre una riflessione per individuare i tratti comuni di una Roma ben amministrata.

Il principale tratto saliente dei sindaci del “buon governo” è stato avere un’“idea forte” sui problemi da affrontare e aver dimostrato la capacità di risolverli o quanto meno di avviarli a soluzione. Nel caso della sindacatura di Nathan, il suo progetto politico si indirizzò su diversi fronti: contrasto alla rendita urbana, salvaguardia dei consumi delle classi meno abbienti, aumento della partecipazione dei cittadini, ruolo attivo del Comune nella gestione dei servizi pubblici, allora in mano a monopoli privati. Nel caso di Argan e Petroselli l’idea di città che li ha guidati era ispirata all’obiettivo politico di riportare all’amministrazione pubblica le decisioni sul futuro della città, che per anni erano state fortemente condizionate dal “partito della rendita”, e all’obiettivo sociale di riunificare la città accorciando le distanze tra centro e periferia. Nella narrativa successiva, si è teso a valorizzare più il biennio di Petroselli per l’opera di risanamento delle borgate; in realtà, credo che si debba piuttosto enfatizzare la continuità di quel quinquennio dal momento che la politica di recupero delle periferie e i primi provvedimenti furono avviati con la sindacatura di Argan.

Infine, Rutelli: una sindacatura animata da una forte idea di modernizzazione della città; se si rilegge oggi a distanza di quasi trent’anni il suo programma si ha la triste percezione di quanto quei problemi già allora così ben individuati siano ancora gli stessi. E come l’idea forte dietro quel piano sia valida ancora oggi:

“Le nostre due parole chiave: più solidarietà per avere anche più efficienza. Un binomio che fornisce la misura del grado di civiltà di una moderna metropoli […]. Entrambi [i valori] mirano al soddisfacimento dei diritti dei cittadini, specie di quelli più deboli, che sono le vittime predestinate non solo del vuoto di solidarietà ma anche delle inefficienze più diffuse”

Il governo della città raggiunse con Rutelli indubbi risultati nella viabilità, nel decoro e nella riqualificazione urbana, che interessò in parte anche le periferie, negli assetti societari e nel recupero dell’efficienza delle imprese municipalizzate, nell’organizzazione dell’amministrazione comunale, nel rilancio culturale della città. Fu tuttavia oggetto di critiche da due versanti: la politica verso l’imprenditoria romana – quella che conta, cioè i costruttori – che, secondo i critici, sarebbe stata in grado di indirizzare l’agenda delle policy urbane a proprio favore e una subalternità nei rapporti con il Vaticano nella gestione del Giubileo. Entrambe le critiche trovano qualche fondamento, anche se non minano, a mio parere, il giudizio di fondo. La prima critica arriva ad affermare, ma in modo troppo semplificatorio, che il governo della città abbia assunto nella politica urbanistica la medesima visione delle sindacature democristiane in una pressoché totale continuità del “regime urbano” di Roma.

In realtà, Rutelli seguì l’antica strategia politica di “occupare il centro” allargando le alleanze politiche e sociali e quindi rivolgendosi anche a una parte di quelle forze che, come ebbe poi a dire Goffredo Bettini, esponente del pd e maïtre à penser della politica romana e nei tempi più recenti nazionale, erano state “imbrigliate” (ma il termine risulta forse un po’ ingannevole) nel sistema della speculazione edilizia e della corruzione. E questa strategia si tradusse in quello strumento urbanistico – il Piano delle Certezze – che, ci torneremo, fu una concessione, ma difficilmente evitabile, agli interessi della rendita; complessivamente la politica di appeasament verso gli interessi edilizi connoterà in modo più marcato la sindacatura di Veltroni. Anche la gestione di Rutelli del Giubileo rispose a una logica di aumentare il suo consenso, questa volta presso la sempre influente Curia romana – su alcuni aspetti ho già richiamato l’attenzione del lettore – e questo spiega il giudizio generalmente meno positivo sulla seconda sindacatura.

L’amministrazione Rutelli è stata poi oggetto di critiche “da sinistra” e tacciata di neoliberismo anche per la sua politica di privatizzazione di alcune società del Comune. Qui mi sento proprio di non condividere quella critica: era una politica adottata anche dal governo nazionale, guidato da Ciampi, non propriamente un liberista, ed era finalizzata a sanare le inefficienze e il clientelismo che caratterizzava la gestione delle municipalizzate. Se proprio una critica si deve fare, è che fu una privatizzazione parziale che non interessò due grandi municipalizzate – quella del trasporto pubblico e quella della gestione dei rifiuti – rimaste sotto il controllo del Comune, un controllo peraltro male esercitato, con effetti che i cittadini romani hanno potuto “apprezzare” nei decenni successivi. Il secondo tratto che accomuna le tre sindacature è che Roma, per iniziare a risolvere i suoi problemi, ha bisogno di essere alimentata da stagioni politiche e ideali a livello nazionale, “alte”, di svolta.

Queste si sono riflesse nella nomina dei sindaci innovatori, di “cambiamento”, che sono stati anche il frutto dello spirito del loro “tempo politico”. Così è stato per Nathan, espressione di una più generale tendenza di quegli anni, anche se non duratura, a favore dei cosiddetti “blocchi laici”. Così fu per Argan e Petroselli che beneficiarono del clima dei governi di unità nazionale. Così fu per Rutelli eletto in un momento di svolta politico-istituzionale – il tramonto della Prima Repubblica e le prime elezioni dirette dei sindaci – e sostenuto dall’affermarsi di una nuova cultura riformista. E queste stagioni si sono riflesse nelle sindacature che hanno espresso una discontinuità nell’idea di città e nella loro gestione. Dalla sintonia con il momento politico nazionale discende un altro fondamentale ingrediente: l’appoggio del governo centrale. La sindacatura di Nathan è caratterizzata da una forte consonanza con il governo di Giovanni Giolitti che offrì una spalla politica ben salda all’amministrazione capitolina. In realtà fu più di una spalla: Giolitti aveva ben presente che la Capitale abbisognava di cure particolari: “Roma fa certe spese in proporzioni più vaste perché è
capitale del Regno”.

Orientamento riflesso già nella sua prima legge a favore di Roma che risale al 1904, quindi prima dell’elezione di Nathan, finalizzata a fronteggiare situazioni emergenziali soprattutto in materia di edilizia e di risanamento finanziario e poi confermata con i provvedimenti del 1907 e 1911. Anche Argan e Petroselli – che subentrò ad Argan eletto nel 1976, dimissionario per motivi di salute, e che fu poi confermato alle elezioni del 1981 – beneficiarono di un diverso ruolo riconosciuto al pci nella politica nazionale. Anche se la stagione del “compromesso storico” si esaurì con le elezioni politiche del 1979, ci fu un effetto di trascinamento nel periodo immediatamente successivo che interessò un’iniziativa legislativa di grande importanza per Roma, tradotta poi in legge nel 1981: promossa dal Partito repubblicano e con il contributo di Antonio Cederna, stanziava 180 miliardi di lire per il patrimonio archeologico (gli interventi vennero attuati con la sindacatura successiva, sempre di centrosinistra, guidata da Vetere).

Nel caso di Rutelli per cinque dei suoi sette anni di sindacatura la guida del paese fu in mano al centrosinistra. Veicolo legislativo per far affluire fondi al Comune fu la legge sugli interventi per Roma Capitale che se pure approvata alla fine del 1990 ha finanziato la Capitale per oltre un ventennio, vista la possibilità di utilizzare negli anni successivi i fondi non spesi e di stanziarne di nuovi. Complessivamente si stima che siano stati stanziati fino al 2007 oltre due miliardi di euro di cui 1,1 miliardi trasferiti al bilancio del comune di Roma. La legge era molto ambiziosa: prevedeva un piano d’intervento per la redistribuzione delle strutture direzionali nella città; l’adeguamento delle infrastrutture e dei servizi per la mobilità; la riqualificazione dell’ambiente e del territorio; la conservazione e la valorizzazione del patrimonio storico-artistico; la qualificazione e il potenziamento del sistema universitario e della ricerca; il potenziamento delle attività e delle strutture nel campo dello spettacolo, delle comunicazioni e delle attività espositive e congressuali; l’adeguamento e la ridistribuzione delle sedi delle istituzioni internazionali nella città.

Poi Rutelli ebbe a disposizione anche i finanziamenti per il Giubileo dove sono state spese cifre ingenti. Il rilevante ruolo svolto dall’appoggio dei governi nazionali spiega il successo ma anche la fragilità delle sindacature di successo. Gli appoggi dei governi centrali sono inevitabilmente transitori (considerata anche la poca stabilità della politica nazionale). È questo il caso di Nathan quando, alle prime avvisaglie di crisi economica e con la paura di una nuova avanzata socialista, Giolitti cerca nuove alleanze verso i clericali. D’altra parte, che il blocco laico che sosteneva Nathan fosse una fragile costruzione e non il segno di un’evoluzione economico-sociale della città era già intuibile da un’analisi dei risultati elettorali del 1907: in una città di mezzo milione di abitanti il voto venne esercitato da meno della metà dei 41.000 cittadini che vi avevano diritto, proprio a causa dell’astensione dei cattolici. Non dissimile il caso della fine delle giunte di centrosinistra a cavallo degli anni Ottanta a cui non fu estraneo il mutamento del clima politico nazionale: l’affermarsi del governo pentapartito e la competizione politica dei socialisti nei confronti del pci, avviata dalla segreteria Craxi.

Anche nel caso della fine delle giunte di centrosinistra a cavallo del secolo, la sonora sconfitta del 2008 a Roma accompagna (e in parte riflette) l’altrettanto pesante sconfitta alle elezioni nazionali dove il centrosinistra perde 5 milioni di voti rispetto alle elezioni di appena due anni prima. L’incapacità delle “buone amministrazioni” di insediarsi durevolmente a guida della città discende anche dalla difficoltà di misurarsi con le questioni urbanistiche. Nathan si era contrapposto alla rendita: impose tasse sulle aree fabbricabili e procedette ad alcuni espropri, applicando quanto il governo Giolitti aveva già stabilito a livello statale. Ma la rivolta dei proprietari terrieri non si fece attendere e alcuni gruppi di potere locali (famiglie aristocratiche proprietarie di terreni e immobili, società costruttrici, banche legate al Vaticano), si coalizzarono contro la giunta. Anche la sconfitta alle elezioni comunali del 2008 riflette in parte il fallimento della tentata alleanza con il blocco edilizio. Ma le difficoltà di misurarsi con le questioni urbanistiche non hanno solo a che vedere con “il partito della rendita”.

Anche il rapporto con la città storica si presenta fonte di controversie politiche: furono ad esempio i dissensi interni alla sinistra sul “Progetto Fori”, cioè l’ipotesi di sostituire via dei Fori Imperiali con un parco archeologico, a minare le giunta guidata da Vetere. Tornando agli ingredienti delle buone sindacature, l’ultimo su cui richiamare l’attenzione è la capacità di coinvolgere tecnici o personalità del mondo culturale con una forte carica innovativa in affiancamento al sindaco per produrre idee e realizzare politiche che hanno caratterizzato, pur in combinazioni variabili, quelle esperienze. Rutelli chiama Campos Venuti a collaborare al Piano Regolatore. Nathan affida la redazione del Piano Regolatore e gli interventi per la celebrazione del cinquantenario di Roma Capitale a Edmondo Sanjust di Teulada, allora ingegnere capo del genio civile di Milano, un tecnico estraneo all’ambiente capitolino, e nomina Giovanni Montemartini, economista, molto apprezzato da Einaudi e da Pareto (anche se di idee socialiste) assessore ai servizi tecnologici, posizione dalla quale portò avanti la municipalizzazione dei servizi elettrici e una riorganizzazione del trasporto pubblico.

La discussione che si tenne allora in consiglio comunale sull’organizzazione dei servizi pubblici e sui pro e contro della proprietà municipale rivela un clima intellettuale vivo, con visioni articolate sul funzionamento dei servizi e sul rapporto pubblico-privato che sono ancora attuali. In confronto, la non-discussione nel Consiglio comunale nel 2018 e l’ideologismo espresso dalla sindaca Raggi in occasione del referendum promosso dai radicali sull’introduzione della concorrenza nella gestione del trasporto pubblico, sono emblematici della povertà della politica romana di oggi. La eccezionalità di una buona politica nel secolo e mezzo della vita di Roma come capitale riflette la mancanza di un blocco sociale riformista che porti avanti battaglie politiche per servizi pubblici più efficienti, per una crescita urbana più sostenibile e rispettosa del patrimonio storico della città, per la soluzione del problema della casa, per un’amministrazione comunale al servizio del cittadino e non dei suoi dipendenti.

Da questo punto di vista la Capitale non rappresenta un’eccezione rispetto al paese dove la debolezza delle culture riformiste è un tratto caratteristico dello scenario politico. Perché il riformismo non sia solo un orientamento etico, una propensione culturale di gruppi ristretti, di studiosi e tutt’al più di qualche politico illuminato, si richiederebbe un lavoro politico diretto a far maturare nella maggioranza dei cittadini, o comunque in una sua parte cospicua, un favore verso le politiche riformistiche. Che è esattamente quello che è mancato, a Roma come nel resto del paese. E questo per almeno tre ordini di motivi: le riforme nel breve termine sono costose per alcuni gruppi e istituzioni in quanto spostano risorse e ai decisori può mancare il capitale politico per superare gli interessi costituiti; la nostra classe dirigente è impegnata prevalentemente nei conflitti distributivi di breve periodo mentre prevalgono visioni ideologiche e conflittuali circa le riforme di lungo periodo; manca una sensibilità diffusa per i beni collettivi da parte della classe imprenditoriale.

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