Le sue tele sono vere e proprie meraviglie pittoriche create in tempi tragici, di carestie e pestilenze, nell’Italia di inizio Seicento. A servizio, ma non troppo, della Controriforma.
La mostra in programma da ottobre a Palazzo dei Diamanti sarà un’occasione imperdibile per accostarsi a un capitolo della storia dell’arte affascinante anche se poco conosciuto. L’appuntamento espositivo sarà riservato, infatti, a uno dei grandi protagonisti della pittura del Seicento: il ferrarese Carlo Bononi, il cui nome, non a caso, è stato spesso accostato a quelli di Tintoretto, dei Carracci o di Caravaggio.
La rassegna – la prima monografica a lui dedicata – è organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte ed è curata da Giovanni Sassu, conservatore dei Musei d’Arte Antica della città estense, e da Francesca Cappelletti, docente di Storia dell’Arte Moderna dell’Università degli Studi di Ferrara.
Per secoli Bononi, come del resto l’intero Seicento ferrarese, è rimasto in ombra, offuscato dal ricordo della magica stagione rinascimentale degli Este. Una lenta operazione di recupero critico ha progressivamente messo a fuoco la figura di un artista unico, che seppe interpretare in modo sublime e intimamente partecipato la tensione religiosa del suo tempo.
Pittore di grandi cicli decorativi sacri e di pale d’altare, Bononi elabora un linguaggio pittorico che pone al centro l’emozione, il rapporto intimo e sentimentale tra le figure dipinte e l’osservatore. Negli anni drammatici dei contrasti religiosi, dei terremoti e delle pestilenze, il sapiente uso della luce e il magistrale ricorso alla teatralità fanno di lui uno dei primi pittori barocchi della penisola, come testimoniano le seducenti decorazioni di Santa Maria in Vado.
Ma Bononi fu anche un grande naturalista: nelle sue opere il sacro dialoga con il quotidiano. Tele come il Miracolo di Soriano o l’Angelo custode mostrano quanto sentita fosse per l’artista la necessità di calare il racconto religioso nella realtà, incarnando santi e madonne in persone reali e concretamente riconoscibili. In questa prospettiva, pochi come lui hanno saputo coniugare il nudo maschile con le esigenze rappresentative dell’Italia ancora controriformista di inizio Seicento: i suoi martiri e i suoi santi sono dipinti con perfezione potente e, al contempo, suadente, ma senza alcun gusto voyeuristico.
Ma Bononi non dipinse solo soggetti religiosi, fu anche il sorprendente interprete di una classe di committenti colti e attenti alle arti, con preferenze spiccatamente musicali, inclini a contenuti figurativi un po’ licenziosi, come provano le varie redazioni del Genio delle arti, capolavori con i quali Bononi dialoga apertamente con Caravaggio e con i suoi seguaci.
Tutto questo era ben chiaro agli occhi dei contemporanei. Il “divino” Guido Reni, a pochi mesi di distanza dalla morte di Carlo, avvenuta nel 1632, lo esaltava descrivendolo «pittore non ordinario» dal «fare grande e primario», dotato di «una sapienza grande nel disegno e nella forza del colorito». Un secolo dopo, Bononi attirava l’attenzione dei viaggiatori del Grand Tour, da Charles Nicolas Cochin a Johann Wolfgang Goethe, ma anche quella del grande Giuseppe Maria Crespi e dell’abate Luigi Lanzi, il quale, nella Storia pittorica d’Italia lo definisce «un de’ primi che l’Italia vedesse dopo i Caracci». Rafforza l’idea che i grandi della storia dell’arte si sono fatti di questo pittore la valutazione di Jakob Burckhardt che nel Cicerone (1855) davanti alle decorazioni di Santa Maria in Vado si dichiarava convinto di trovarsi di fronte al prodotto di una delle menti più brillanti del suo tempo.