Apparentemente nelle Assise di Bergamo è stata posta la prima pietra per un rinnovamento completo della Confindustria. Migliaia di imprenditori si sono riuniti a porte chiuse e si sono parlati fuori dai denti. Hanno preso atto della difficile situazione in cui si trovano: non hanno una sponda politica affidabile,non hanno sindacati capaci di stipulare durevoli patti per lo sviluppo, non possono contare su una solida e diffusa cultura del mercato.
Anzi si trovano a fare i conti con una politica sempre più autoreferenziale e con una perdita di credibilità di tutte le classi dirigenti che in buona misura coinvolge anche gli imprenditori e la Confindustria. Quindi è stato detto che bisogna cavarsela da soli. Bisogna smettere di chiedere favori o sussidi alla politica. Bisogna evitare di essere omologati alla politica non partecipando ai teatrini parolai che caratterizzano il modo di fare politica in Italia. Soprattutto le modalità di gestione della propria organizzazione devono assomigliare il meno possibile ai riti ed ai sistemi propri della politica, a cominciare dalle campagne elettorali per le varie cariche associative e dall’uso spregiudicato dello spoil system da parte della fazione vincitrice. E’ stata in sostanza riproposta l’ispirazione filosofica che era già di Angelo Costa, primo mitico presidente di Confindustria del dopoguerra, e cioè di una associazione autorevole e non corporativa che difende non solo gli interessi delle imprese oggi esistenti ma “guarda alle imprese che verranno” cioè una Confindustria che deve avere l’ambizione di perseguire, anche attraverso la difesa di legittimi interessi di parte, un più ampio interesse generale del Paese a svilupparsi sia economicamente che culturalmente.
Ma come riformare l’organizzazione ed i comportamenti dei suoi dirigenti al fine di realizzare questo importante cambio di passo? Ci vuole una nuova cultura non solo da offrire al Paese,ma da applicare in primo luogo all’interno del sistema confindustriale, se si vuole davvero rappresentare un esempio per l’intera classe dirigente. E di cose da cambiare ce ne sono davvero molte, nei comportamenti prima ancora che nelle regole statutarie e nella riorganizzazione più efficiente degli uffici. Infatti non ci si può illudere che sarà solo tagliando i costi e unificando i servizi, che si restituirà a Confindustria quel peso di un diverso ed autorevole componente della classe dirigente che si sta un po’ perdendo. Bisognerà prima fissare le priorità che il sistema deve perseguire con ruoli differenziati tra centro e periferia, e modificare così la corsa verso le poltrone piccole o grandi che siano. La degenerazione verso il politichese si è affermata più di un decennio fa con la presidenza D’Amato, quando lo stesso presidente ha esplicitamente diviso l’associazione tra maggioranza che aveva vinto le elezioni e minoranza che aveva perso con il diritto per la maggioranza di occupare tutti i posti di comando, quando si è affermato il concetto che Il Sole 24 Ore e la Luiss sono due “strumenti” in mano alla presidenza da usare per il perseguimento dei suoi fini politici. Insomma quando si è smarrito il concetto della Confindustria come libera associazione di imprese in cui il presidente non è il “capo” degli industriali che si è conquistato quel posto dopo una dura competizione elettorale, bensì il “portavoce” degli imprenditori chiamato a quel ruolo per puro spirito di servizio.
Quando non si è più capito che a Confindustria veniva più prestigio e autorevolezza dall’aver promosso un grande quotidiano indipendente e al servizio di tutta l’economia italiana, piuttosto che dall’uso giornaliero di quello strumento come una clava per fare pressioni su questo o quel partito o su questo o quel ministro. Così la Luiss nelle intenzioni di Guido Carli, doveva essere un centro autonomo di elaborazione culturale e non certo un lobbistico produttore di cultura a rimorchio di interessi contingenti. Indipendentemente dal fatto che questi propositi siano stati o meno attuati fino in fondo ,essi hanno comunque prodotto gravi danni nella prassi confindustriale che ha finito spesso per assorbire logiche proprie dei partiti, delle divisioni in correnti, della lottizzazione delle posizioni di comando. Da qui nasce la degenerazione dei cosidetti “professionisti della rappresentanza”, dato che se si tratta di organizzare correnti o cordate allora ci vogliono professionisti disposti a stare nell’associazione quasi a tempo pieno. Ed è singolare sentire proprio Stefano Parisi, ex direttore generale della Confindustria, tuonare contro questa degenerazione, visto che proprio lui è stato uno dei più attivi promotori di tale prassi. Che sia pentito? Tutto questo, paradossalmente, è avvenuto proprio mentre stava diminuendo il tradizionale ruolo politico di Confindustria che traeva principale legittimazione dal proprio ruolo di controparte dei sindacati e di soggetto principale al tavolo di concertazione con il Governo. Quest’ultimo è praticamente cadito in disuso, mentre il ruolo di coordinamento dei grandi contratti collettivi di lavoro sta progreessivamente sfumando con l’affermarsi della contrattazione decentrata e con i contratti aziendali Fiat insegna) che sostituiscono quelli nazionali.
Ed allora che fare di Confindustria? Se il ruolo di controparte sindacale (che è stata l’esigenza determinante dei fondatori un secolo fa) verrà progressivamnte ridotto e con esso quello di soggetto politico, quali spazi potrà occupare l’organizzazione degli industriali? Un ruolo solo di lobby per provvedimenti che riguardano singoli settori può essere meglio svolto dalle associazioni di categoria che rappresentano interessi omogenei. Una lobby sui grandi temi della fiscalità, della politica economica, delle regole del mercato, del diritto d’impresa è già svolta da Assonime che peraltro raggruppa anche banche ed assicurazioni e quindi può rappresentare meglio le istanze delle società di capitale. Fare più servizi alle imprese? Certo è possibile, ma esiste un importante mercato privato di servizi alle imprese che si adatta e si specializza con maggiore rapidità e flessibilità di quanto non possano fare degli uffici di una grande e complessa associazione. Tuttavia in un Paese come l’Italia dove c’è una bassa cultura del mercato, dove la scuola è lontana dal mondo delle imprese, dove il settore pubblico è sempre più ampio a dispetto di governi che si proclamano liberali e dicono di volere meno Stato, dove la “manomorta” di tanti monopoli piccoli e grandi frena la competitività del sistema, la Confindustria potrebbe ed anzi dovrebbe svolgere un ruolo di grande importanza per cercare di cambiare il clima della pubblica opinione e fare un po’ di più apprezzare il mercato, la mobiltà, il merito. Ma per farlo deve riconquistare credibilità. Se predica le virtù del mercato e del merito dovrà essere la prima a dare l’esempio applicandole in maniera trasparente al proprio interno. Ed allora basta con le pratiche para-politiche che premiano l’appartenenza ad una cordata, ma deve creare degli assetti dove si privilegiano le scelte professionali fatte da professionisti. Quale danno,ad esempio, ha portato all’immagine di Confindustria (oltre che alle finanze della casa editrice) la nomina di Gianni Riotta alla direzione de Il Sole 24 Ore avvenuta al di fuori dalle logiche di una azienda per di più quotata in Borsa?
Carbonato: non solo “status symbol”
Per il presidente degli industriali di Torino occorre una grande riforma che spinga Confindustria a fare meno richieste ma più proposte legate agli interessi generali – Prima di scegliere il nuovo Presidente, decidiamo che cosa fare e come arrivarci
“Ci sentiamo come chi sta in prima linea senza però avere alle spalle un supporto adeguato all’asprezza della battaglia che si sta svolgendo”. Gianfranco Carbonato, presidente dell’Unione Industriale di Torino, parla dello stato d’animo di molti imprenditori che sono accorsi alle Assise di Bergamo per esprimere questo malessere e per cercare, senza inutili allarmismi ma con fermezza, una possibile via di uscita da questa situazione di sofferenza. “L’alta affluenza di imprenditori ad un evento che si è svolto a porte chiuse, e quindi senza grande spettacolarità, dimostra che si sono affrontati temi molto sentiti. Del resto in Italia pochi gruppi sociali sentono sulla loro pelle gli effetti della concorrenza internazionale. Solo gli imprenditori vivono lo sforzo di chi si deve misurare quotidianamente sui mercati internazionali. E sentono che i politici non hanno nella loro Agenda l’impegno a sostenere la competitività delle imprese. Gli imprenditori stanno vivendo, come peraltro altri gruppi sociali, un crescente distacco dalla politica, dal suo modo di dibattere, dalla sua incapacità di prendere decisioni coerenti con la necessità di riavviare lo sviluppo del Paese”.
Carbonato, che è presidente di una media azienda che lavora in tutto il mondo, sa quali sono i problemi delle imprese. Non si tratta di avere sussidi, ma di impostare un’azione di risanamento e di riforme che portino ad un innalzamento complessivo della produttività. E la Confindustria deve proporsi come interlocutore serio e credibile del Governo verso il quale deve avere un rapporto dialettico ed equilibrato ma rimanendo ferma sulle proprie idee. “Bisogna far capire bene a tutti – dice Carbonato – che gli imprenditori di Confindustria non fanno richieste, ma avanzano proposte che non sono solo in funzione di un interesse particolare, ma si conciliano anche con l’interesse generale del Paese a riprendere un percorso di crescita.”
La Confindustria conserva quindi una funzione importante come rappresentante del sistema delle imprese. Ma anch’essa deve sicuramente rivedere il proprio funzionamento, mettersi al passo con i tempi. ” Sì, anche Confindustria -afferma Carbonato- deve rapidamente affrontare una fase di rinnovamento, snellimento e riorganizzazione. Alcune funzioni tradizionali forse oggi non sono più al centro del sistema come ad esempio quella sindacale anche se come abbiamo visto di recente con il caso Fiat la nostra organizzazione deve essere più innovativa e più propositiva. Oggi comunque l’innovazione e l’internazionalizzazione sono in cima agli interessi delle aziende e su questo terreno dobbiamo fare di più sia direttamente che nel rapporto con il Governo.” Sotto il profilo organizzativo Carbonato ritiene che oggi “c’è un sistema su troppi livelli che rende la gestione troppo complessa. Bisogna avviare una importante riforma che focalizzi meglio il sistema sulla cose da fare e riduca i troppi livelli di rappresentanza.” Ma su questa strada a volte, gli ostacoli vengono posti anche dagli imprenditori che aspirano a cariche associative. ” Basterebbe pensare che ricoprire una carica in una associazione non è uno status symbol ma è un impegno che gli imprenditori assumono per spirito di servizio e talvolta con sacrificio dovendo sottrarre tempo prezioso al lovoro nella propria azienda.”
Quindi sono così delineati i compiti per la nuova presidenza che, peraltro con grande anticipo, vede già in campo alcuni nomi prestgiosi dell’industria italiana. “Mi sembra presto per parlarne – dice Carbonato – e comunque tutti i nomi che si leggono sono certamente di grande spessore. Quello di cui bisogna parlare adesso e del cosa fare e di come arrivarci. Comunque io mi auguro che ci sia una designazione largamente condivisa perchè ci vuole molta forza e molto consenso per fare le riforme. Abbiamo tanti fronti aperti esterni ed interni alla nostra associazione. Mai come adesso ci vuole spirito unitario e senso di responsabilità non certo conflitti di potere veri o presunti che siano”.
Ci vorrebbe un Papa straniero
Per la guida di Confindustria sarebbe preferibile una scelta alla Carli – Decisiva è l’umiltà anziché l’ambizione
di Giulio Sapelli
Si è aperto un dibattito sulla Confindustria. Sull’efficacia e sull’efficienza della rappresentanza, o almeno così io voglio interpretare gli interventi su questo tema, per non cadere in diatribe personali che sono fuori dal mio modo di ragionare Il problema è che bisogna prendere il toro per le corna e chiedersi se non sia errato il modello di comando della rappresentanza confindustriale nel suo punto apicale. Ossia, se non sia errato dare per scontato che il Presidente Nazionale (le Unioni Territoriali sono ben altra cosa…) di Confindustria debba per forza sempre essere un imprenditore. Non affronto il problema sotto il profilo teorico: sarebbe tedioso, anche se prima o poi varrebbe la pena farlo. Mi limito a ricordare che, senza dubbio, il periodo aureo di Confindustria nel secondo dopoguerra fu quello della Presidenza di Guido Carli e della Direzione Generale di Paolo Savona. Certo tutti si infastidirono e mal sopportarono quella diade. Ma allora ci si dimenticava la tragedia della Presidenza Costa, quando Confindustria era contro l’entrata dell’Italia nel Mercato Comune Europeo e quando gli industriali davano direttamente man forte ai partiti politici a cui rivolgevano i loro voti senza mediazione alcuna. Si andò a finire maluccio sul piano della reputazione e si rischiò la frattura tra l’ala dei riformatori, che infine vinsero la partita (Agnelli e Pirelli con la loro riforma che fu storica…) per poi provocare, ahimè!, dei disastri. Essi possono essere riassunti con quello epocale dell’ accordo sul punto unico di scala mobile che portava la firma di Giovanni Agnelli. Si era in una situazione drammatica, certo, con la violenza di massa nelle strade e nelle piazze e nelle fabbriche con morti e feriti mai abbastanza onorati e la resa della classe dominante economica e politica. Essa, piuttosto che difendere lo Stato, spesso difese quei suoi figli ch’erano in prima fila tra i violenti. Oggi la situazione internazionale dei mercati, unitamente alla sottrazione crescente di sovranità agli Stati nazionali, obbligherebbe gli industriali a dedicare più attenzione a Bruxelles piuttosto che alla politica romanica, trasferendo buona parte di Viale dell’Astronomia in Avenue Churchill a Bruxelles (“Chez George” è a due passi e si può desinare sempre benissimo…), perchè ormai le grandi scelte non sono assunte in Italia, ma su scala europea. E il tempo che occorre dedicare all’analisi dei mercati e della situazione internazionale richiede la formazione e la crescita di “intellettuali organici” della rappresentanza industriale. Penso a quell’incompreso gigante che fu Felice Mortillaro, per esempio, che avrebbe potuto essere l’antesignano di questa nuova stagione e che non a caso fu, invece, mortificato per la Sua troppo accesa libertà di pensiero e la Sua troppo brillante intelligenza. Se si vuole parlare di merito, occorre dare un’aura tecnocratica e non parentale alla direzione confindustriale, a partire dai giovani, per salire su su per li rami più anziani. Dei bravi funzionari di spicco con curriculum illustri e capaci di interpretare il profondo cuore degli industriali sarebbero la soluzione. E forse risolverebbero assai meglio, con la cooperazione costante degli imprenditori certamente, i grandi dilemmi che abbiamo dinanzi: come ristrutturare l’ internazionalizzazione della nostra rappresentanza proprietaria, non solo dell’ industria e come creare, a fianco del pensatoio economico già esistente e di gran valore, un pensatoio sulle relazioni industriali non estemporaneo e casualmente ispirato dal professore alla moda, ma in grado, invece, di dare il là su questo tema non solo su scala italiana ma internazionale. Insomma, con il Sommo Poeta si può ben desiderare ch’è meglio che l’Imperator venga da orizzonti esterni alla pepinière di coloro che debbono essere rappresentati: questi ultimi si dedicherebbero ancor meglio alle loro imprese, con maggior concentrazione e deciderebbero con più libertà e in piena convinzione e ben controllerebbero i rappresentanti stipendiati. La mia convinzione è che la verità (e quindi la soluzione semplice) anche nella rappresentanza si raggiunge con il pensare complesso, ma che questo pensare è, in definitiva, molto più frugale di quanto non si creda: si costruisce per sottrazione e non per addizione. Decisiva è quindi l’ umiltà anziché l’ ambizione.
*Ordinario di Storia economica all’Università Statale di Milano