Il giudizio degli osservatori internazionali, politici, studiosi, uomini d’affari sull’Italia si è andato consolidando negli ultimi vent’anni su un versante pesantemente negativo. Basti citare l’ex ambasciatore americano a Roma Ronald P. Spogli che nel 2009, al momento di passare le consegne al suo successore così riassumeva i limiti dell’Italia: “Una burocrazia lenta, un mercato del lavoro rigido, la criminalità organizzata, la corruzione, la lentezza della giustizia, la mancanza di meritocrazia”. E, forse per bon ton diplomatico, non è stata citata la confusionaria incapacità della politica.
Lo storico inglese Niall Ferguson lo scorso anno ha manifestato tutto il suo scetticismo sulla possibilità di risolvere gli enormi problemi strutturali di cui soffriamo e quindi ha previsto per l’Italia un futuro da “vacation land”,da paese dove i ricchi abitanti dell’Europa centrale possano passare un meritato periodo di riposo dalle loro fatiche di produttori di ricchezza.
Giudizi severi ma che non si discostano poi tanto da quelli di molti osservatori nostrani, che vedono da anni sistematicamente frustrati i loro sforzi per l’attuazione di quelle riforme capaci di cambiare la deriva “declinista”sulla quale stiamo lentamente scivolando. Michele Salvati ha tratteggiato bene sul Corriere della Sera di pochi mesi fa l’enorme sforzo di cambiamento culturale che dobbiamo compiere: “cambiare il clima di ristagno, la riluttanza al cambiamento, l’insofferenza per la competizione ed il merito, la presenza di bardature corporative, la tolleranza diffusa per l’illegalità, la furberia e lo scarico di responsabilità. Il governo Monti sta provando a smuovere una economia ed una società bloccate, a modificarne gli atteggiamenti e la mentalità, ma ci vuole tempo”. E soprattutto bisogna chiedersi se le forze politiche che con crescente riluttanza, lo stanno appoggiando in Parlamento e lse e forze sociali sono veramente disponibili ad imboccare una strada così innovativa e lontana dagli abituali tracciati.
Eppure a guardar bene dentro le mille facce del nostro paese, si possono individuare punti di forza sui quali far leva per imboccare la via di un “riscatto”, per avviarci, cioè, sul sentiero dello sviluppo e per recuperare il ruolo che ci compete nell’ambito del contesto internazionale.
E’ ciò che tentano di fare Antonio Calabrò, già vice direttore de Il Sole 24 Ore ed attualmente responsabile delle attività culturali di Pirelli, e Nani Beccalli Falco ,manager che si occupa della attività globali della GE, con un saggio volto a contrastare la rassegnazione dei declinisti con argomentazioni capaci di rafforzare le convinzioni dei “ragionevoli ottimisti”. ( Il riscatto – L’Italia e l’industria internazionale – Università Bocconi Editore).
Naturalmente i due autori non sottovalutano i punti di debolezza del nostro paese. Anzi ne fanno una impietosa analisi ricca di dati, in cui si risale alle origini della nostra progressiva perdita di competitività e si descrive senza reticenze la grave situazione nella quale ci troviamo. Tuttavia accanto all’analisi delle cose a cui occorre mettere riparo, vengono indicati anche i nostri punti di forza sui quali si può far leva per cambiare rotta ed iniziare il nostro riscatto. E questi sono in primo luogo la presenza in Italia di un robusto sistema industriale, manifatturiero, che nonostante tutto ha resistito alla crisi e con opportune politiche, potrebbe rafforzarsi fino a rappresentare il motore capace di trainare fuori dalle secche l’intero sistema. Ma accanto all’industria, che è pur sempre la seconda dell’Europa dopo quella tedesca, l’Italia ha altre risorse da valorizzare come la vitalità, l’intraprendenza le robuste radici culturali, la vivacità delle energie imprenditoriali diffuse, la creatività, e cioè un buon capitale umano ed un discreto capitale sociale che se adeguatamente valorizzate possono essere la base di un rilancio dell’attrattività degli investimenti sia esteri che italiani.
Certo l’elenco delle cose che non vanno è impressionante. Ma ben noto. Si va dal fisco che è oppressivo e imprevedibile, alla burocrazia pesante ed inconcludente, alla Giustizia che ha tempi così lunghi da vanificare l’idea stessa di ottenere soddisfazione di un proprio diritto nelle aule di un Tribunale, al mercato del lavoro dove ancora si confonde la precarietà con la flessibilità e dove certi sindacati continuano a battersi per diritti che stanno portando di fatto all’appiattimento dei salari ed alla riduzione dei posti di lavoro.
Tutti questi fattori contribuiscono alla scarsa attrattività degli investimenti da parte delle aziende multinazionali nel nostro paese. Tutte le classifiche dimostrano che siamo agli ultimi posti in Europa in quanto ad investimenti esteri e questo comporta oltre ad un danno diretto per la mancata creazione di posti di lavoro, una forte perdita dal lato della introduzione di nuove tecnologie e di più avanzati modelli organizzativi, con il risultato finale di ridurre gli stimoli competitivi per l’intero sistema industriale.
Nel complesso l’analisi di Calabrò e di Beccalli Falco porta nuovi e probanti elementi a quanto molti hanno da tempo intuito, e cioè che l’Italia è schiacciata da un sistema pubblico paghidermico e quindi costoso ed inefficiente che ostacola il naturale dinamismo delle attività economiche. E questo deriva da una inadeguata direzione politica che ha cercato di inseguire il consenso a suon di concessioni economiche o di privilegi normativi che hanno gradualmente ingessato il Paese costringendolo all’immobilità. Le affermazioni dell’ex ambasciatore Usa e di Michele Salvati vanno al cuore dei problemi. Ma questi possono essere risolti solo con l’affermazione di una forza politica moderna e riformista,capace di attaccare i mille privilegi delle corporazioni ed inserire elementi di efficienza nella macchina pubblica.
Calabrò e Beccalli Falco inseriscono alcune elementi di ottimismo in uno scenario che spesso non sembra mostrare grandi spiragli. Una cosa viene ricordata nel volume ed è importante sottolinerla in un momento di grande confusione come l’attuale in cui stanno prendendo consistenza le suggestioni di chi ritiene che staccandoci dall’Europa si possa più facilmente trovare la strada della crescita. All’inizio degli anni cinquanta il nostro riscatto dalle rovine della guerra è avvenuto grazie ad una precisa scelta di apertura verso l’Europa nella quale, al di là dei timori iniziali, le nostre imprese hanno potuto giocare un riuolo da protagoniste, trainando l’intero paese verso livelli di benessere economico ma anche di avanzamento sociale e culturale, mai conosciuti prima. Ora, al di là dei problemi che affliggopno l’intera Europa, sbandierare come soluzione ottimale per noi il ritorno alla moneta nazionale e la chiusura entro i nostri confini nazionali, vuol dire non aver capito la lezione della storia, ed imboccare una strada che è all’esatto opposto di quella proposta dai due autori in questo saggio dove si indicano le vie di un riscatto possibile senza illusorie scorciatoie.