Adesso è ufficiale: venerdì 22 giugno, nei quarti di finale degli Europei si ritroveranno una di fronte all’altra Germania e Grecia. Il derby dello spread, come l’ha già definito qualcuno. I primi contro gli ultimi, la “locomotiva tedesca”, il “volano all’economia europea” contro la zavorra, il piccolo grande paese sommerso dai debiti che grava sui mercati e sull’unione. Due membri di un’unica famiglia allargata, e un po’ slabbrata, che non riescono proprio a sopportarsi perchè sono troppo diversi e lontani.
Lo stesso discorso sembra valere per le due squadre. La Germania, coi suoi 25,7 anni di età media, è la squadra più giovane della storia della competizione, un concentrato letale di forza fisica e temperamento, un rullo compressore che ha imparato ad ospitare nel suo ingranaggio anche la fantasia, incarnata soprattutto dal mezzo turco Ozil, come quella variazione di ritmo necessaria a non mandare fuori tempo le sue ruote.
La Grecia invece è una squadra vecchiotta e spelacchiata, simboleggiata perfettamente dal toporagno Gekas, centravanti di luttuosa bruttezza e dubbia efficacia, che proprio in Germania ha costruito le sue alterne fortune. A trascinarla ai quarti è stato Karagounis, uno dei tre reduci dell’impresa del 2004, quando la Grecia, guidata proprio da un tedesco (il catenacciaro Rehagel), sconvolse il mondo del calcio trionfando agli Europei.
Karagounis, che oggi ha 35 anni, pareva un giocatore finito (o forse mai davvero iniziato) già allora, quando, all’Inter, scaldava più panchine che cuori.
Erano 8 anni fa, ma sembra una vita, anche se Karagounis è sempre uguale. Sulla prima pagina del giornale greco Goal-news, il giorno dopo la vittoria con la Russia, campeggiava proprio lui, l’eroe, esultante di gioia rabbiosa. Più in basso il titolo, a caratteri cubitali: “Adesso portateci la Merkel”.
Il Ct della Grecia Fernando Santos, un portoghese, ha già provveduto ad alzare i toni della sfida, rispondendo, con sospetto patriottismo, a chi gli chiedeva se la vittoria fosse un risposta alle politiche della Merkel, che a ispirarlo è stata “la storia della Grecia. La scienza e la democrazia sono nate qui e per questo nessuno può darci lezioni”.
Non è la prima volta che, dietro allo sport, si nascondono questioni politiche. È successo nel ’72, quando la finale olimpica del basket tra Usa e Urss divenne soltanto un capitolo di una storia troppo più lunga, uno degli infiniti campi in cui si combatteva la Guerra Fredda, la lotta tra i due colossi per il possesso dell’anima del resto del mondo.
Oppure nell’86, quando Maradona, nel giro di 5 minuti gravidi di storia del calcio, segnò agli inglesi il gol più infame e poi il più bello, vendicando la guerra della Falkland-Malvinas. “Chi ruba a un ladrone ha cent’anni di perdono” disse poi, con quel biblico populismo che gli è sempre riuscito naturale come un colpo sotto col sinistro, per giustificare il suo gol di mano, quella mano di Dio che puniva l’”usurpatore” inglese.
Sembra improbabile, stavolta, che il desiderio di rivincita di un popolo ferito possa bastare, assai cristianamente, a rendere primi gli ultimi. Il calcio, si sa, non è il regno dei cieli. Gli argentini, oltre all’orgoglio e al revanscismo, avevano Maradona, i greci non hanno neanche più Karagounis, che è stato ammonito per una simulazione inesistente e non giocherà.
Tutto questo mentre nel paese si consumano le elezioni e si celebra la vittoria del conservatore, ed europeista, Samaras (solo omonimo del centravanti belloccio dirottato, pur nel suo metro e 92, sulla fascia sinistra, per far posto al toporagno Gekas), e di quei partiti che per quindici anni hanno falsificato i bilanci dello stato, trascinandolo nel baratro dove oggi si dimena. Ricordandoci per l’ennesima volta che bisogna che tutto cambi, perchè tutto resti uguale, per spingere questa lunga notte più in là.