Il 2012 non è cominciato nel migliore dei modi per la Repubblica Ceca, rimasta orfana di Vaclav Havel. Scomparso il 18 dicembre 2011, Havel fu l’ultimo Presidente della Cecoslovacchia e il primo della neonata Repubblica Ceca: a lui si devono in larga parte i meriti di una transizione “morbida” dal socialismo all’economia di mercato e, soprattutto, di una scissione non cruenta con la Repubblica Slovacca, a differenza di quanto accaduto in ex-Jugoslavia. A vent’anni dalla separazione tra Praga e Bratislava, cosa rimane dello slancio verso lo sviluppo e la rapida crescita economica?
I dati rivelano che l’economia di Praga è ancora in buona salute: nonostante la crisi, nel 2011 il Pil è cresciuto dell’1,7% mentre le previsioni per il 2012 parlano di un +0,8%. Numeri sicuramente non entusiasmanti ma che, in un contesto di grande difficoltà come quello europeo, non vanno giudicati negativamente. Andando più in profondità, si nota infatti come il tessuto economico ceco sia ancora vitale: la produzione industriale è cresciuta del 6,9% nel 2011 trainata dal settore automobilistico (seppur con una tendenza calante negli ultimi mesi dell’anno), mentre le esportazioni sono aumentate del 10,1%. Un vero e proprio boom che si spiega sostanzialmente in due modi. Innanzitutto, l’economia della Repubblica Ceca è legata a doppio filo con quella tedesca: questa relazione geoeconomica è fondamentale in quanto consente a Praga di avere uno stabile mercato di sbocco per i suoi prodotti e anche di essere un “hub” strategico per gli investimenti della Germania e dell’Austria. E poi, lo Stato mitteleuropeo non ha ancora adottato l’euro, a differenza della “sorella minore” Slovacchia: questo consente alle autorità di mantenere ancora una certa autonomia in tema di politica monetaria.
A dispetto di queste statistiche lusinghiere, vi sono però altri indicatori non così positivi. A preoccupare è soprattutto l’inflazione, che a gennaio ha toccato il 3,5% (sfiorando il 10% nel settore dei beni alimentari), soprattutto a causa dell’aumento dell’IVA (al 14% dello scaglione che prima era al 10%) e del costo dell’energia. Un altro problema è rappresentato dalla disoccupazione, in crescita verso un livello del 10% soprattutto nelle regioni più periferiche e distanti da Praga: sintomo di un’economia duale (presente qui come in molti altri Paesi europei) il cui schema è difficile da modificare in maniera definitiva.
In queste settimane, un certo fermento nella vicende politiche e sociali sta agitando le acque della Moldava, solitamente placida. Da una parte, infatti, ha fatto scalpore la repentina concessione dell’asilo politico a Oleksandr Tymoshenko, marito di Yulia, ex premier dell’Ucraina ora in carcere in patria (è stata condannata a sette anni di reclusione per abuso di potere). Tymoshenko è riuscito a rifugiarsi in Repubblica Ceca probabilmente in virtù di amicizie ed interessi nel settore imprenditoriale locale, dove le sue credenziali e frequentazioni non sono proprio cristalline. La Repubblica Ceca è un centro “rinomato” per il transito di “soldi sporchi” (le autorità finanziarie hanno stimato traffici per cento miliardi di corone (circa quattro miliardi di euro) e nella classifica di Transparency International per quanto riguarda il livello di corruzione si trova al 57esimo posto mondiale. Dall’altra parte, il Governo di Petr Necas (che ha sostituito Mirek Topolanek alla guida del Partito Democratico Civico) ha dovuto fronteggiare negli scorsi mesi le proteste degli studenti verso la riforma dell’università, che dovrebbe diventare a pagamento e affidare alle banche la gestione di un sistema di agevolazioni agli studenti sottoforma di “prestiti d’onore”. Le contestazioni non sono tanto verso l’imposizione di una retta, quanto verso la decisione di lasciare alle banche il compito di erogare finanziamenti agli studenti, quando lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto, secondo i manifestanti, attraverso lo stanziamento di fondi pubblici da fornire alle università.
Queste polemiche tuttavia non privano la Repubblica Ceca dell’immagine di Paese attrattivo per gli investimenti esteri. Praga è trentesima nel mondo per quanto riguarda la libertà economica secondo la classifica dell’Heritage Foundation-Wall Street Journal e agli ultimi posti in Europa per il costo del lavoro (9,68€ l’ora secondo Eurostat. L’Italia gestisce il 4% dell’interscambio commerciale complessivo della Repubblica Ceca (quindi sia in termini di import che export), mentre si trova in una posizione più arretrata per quanto riguarda gli investimenti (0,4% del totale). L’investitore principale è l’italiana Eni ed è leader nelle attività di produzione e raffinazione petrolifera, mentre per quanto riguarda il settore bancario è UniCredit, quarta banca del Paese con 57 filiali e assets per 11,7 miliardi di euro.
A vent’anni dalla sua nascita, dunque, la Repubblica Ceca è ancora uno Stato giovane che non ha perso il suo dinamismo e la capacità di crescere e produrre. La crisi europea si fa sentire anche da queste parti: la dipendenza dalla Germania, la cui economia è ancora in buona salute, consente però di attutire parzialmente gli effetti negativi di questa congiuntura. Esistono indubbiamente ulteriori spazi per imprenditori italiani che abbiano le capacità – e in questo periodo anche il coraggio – per investire.