La crisi che imperversa nel mondo da quattro anni non è nata dall’economia di mercato, ma da una finanza sregolata che ha tradito i principi tecnici dei mercati. Lo ha fatto prospettando ricchezze illusorie e determinando gravi distorsioni nell’allocazione delle risorse, anche reali. Nondimeno, la crescita mondiale non si è arrestata: al contrario, essa prosegue a tassi che si possono considerare elevati rispetto ai trend storici. Ciò in quanto a livello mondiale nessuno dei motori della crescita reale si è arrestato: crescita demografica e accumulazione continuano, mentre il progresso tecnologico non è mai stato così intenso.
Ma i centri motori della crescita si sono spostati nei Paesi emergenti, avviando una riduzione degli squilibri accumulati negli ultimi tre secoli, e una correzione delle distorsioni degli ultimi decenni. Si prospetta una nuova divisione internazionale del lavoro nella quale l’Italia, con meno dell’1% della popolazione mondiale, può ben vivere di produzioni specializzate; ma non potrà fare a meno di grandi imprese.
Nel nostro Paese la permanenza di un ambiente ostile all’impresa ha lasciato prosperare soltanto le piccole organizzazioni, in cui i rapporti informali prevalgono su quelli formali. Il prezzo pagato è stato altissimo: perdita delle grandi imprese, diluizione del contenuto tecnologico, riduzione della produttività, degrado della qualità dei contratti di lavoro. La riforma del mercato del lavoro deve non soltanto invertire questa tendenza, ma deve creare condizioni favorevoli alle imprese di domani: agili, mutevoli, veloci nel cambiare oggetti e contenuti, per conservare, almeno in parte, il differenziale di reddito orario che ci separa dai Paesi emergenti.