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Domenico Iavarone: una stella brilla sul Miglio d’Oro del Re

A Torre del Greco in una villa del ‘700 tornata a nuova vita, con una vista strepitosa su tutto il golfo di Napoli, lo chef napoletano, una stella Michelin, è riuscito nell’impresa di lanciare una ristorazione di eccellenza del prodotto locale in un’area dimenticata.

Domenico Iavarone: una stella brilla sul Miglio d’Oro del Re

La magia c’è tutta. Mangiare in una storica villa vesuviana a Torre del Greco, la città del Corallo, avere davanti agli occhi l’incanto del Golfo di Napoli, abbracciando secoli di bellezza e di storia: Napoli; Capo Miseno, base della prima flotta imperiale Romana; Procida, la sonnolenta isola de Il Postino; Ischia, con i suoi bagni termali; Capri, l’isola dei sogni e delle sregolatezze, amata dall’imperatore Tiberio e poi via via, nei secoli, da scrittori, eremiti, artisti, industriali, nobili, fuoriusciti politici, poeti, faccendieri e trasgressivi in cerca di sesso e fortuna, chiudendo con Sorrento, dove Caruso trascorse i suoi ultimi sofferenti giorni prima di andare a morire a Napoli, con la sua meravigliosa scogliera che ha attirato visitatori da tutto il mondo. E alle spalle, alzando gli occhi, l’imponente, fascinosa, ma comunque sempre inquietante, mole del Vesuvio che 80 anni fa spazzò via paesi come San Sebastiano, Massa e Cercola e provocò una trentina di vittime. Siamo nel pieno del fantastico Miglio d’oro, quella lunga striscia di terra che da Ercolano si spingeva fino a Torre del Greco.

Un tempo era un immenso parco che dalle pendici del Vesuvio si spingeva fino al mare, fra boschi, macchia mediterranea, campagne e orti.

La Regina Maria Amalia, moglie di Carlo di Borbone se ne innamorò a prima vista in occasione di una visita che i reali fecero nel 1738 al Duca d’Elboeuf, che possedeva qui un’importante residenza edificata su disegno di Ferdinando Sanfelice, ricca di un giardino di piante rare fatte arrivare qua da tutto il mondo. Quattro anni dopo quella villa fu acquistata da Re per far piacere alla sua augusta consorte. Ma Carlo di Borbone, il Re della grandezza di Napoli, andò più in là, anche lui si innamorò di questo luogo di selvaggia bellezza e decise di far costruire a Portici la sua Reggia estiva, enorme e sontuosa, che doveva competere con tutte le regge dei regnanti d’Europa, collocata da un percorso lineare con la maestosa Reggia vanvitelliana di Caserta. La costruzione venne affidata ad Antonio Canevari che arricchì il bellissimo parco enorme e degradante con statue di Ercolano e Pompei. Non basta. Carlo di Borbone per promuovere lo sviluppo residenziale della zona decretò l’esenzione fiscale per quanti vi edificassero dimore. Inutile dire che in quel tratto di miglio accorsero tutti i nobili, gli alti funzionari e il clero desiderosi di mettersi in mostra accanto alla famiglia reale. Vennero chiamati i più importanti architetti da Luigi Vanvitelli a Ferdinando Fuga, da Ferdinando Sanfelice a Domenico Antonio Vaccaro a Mario Gioffredo. In pochissimi anni vennero edificate circa 200 ville, tutte fastose e con fastosi giardini tutte rivolte al mare. Fra queste anche Villa Guerra a due passi da Villa delle Ginestre dove settant’anni dopo Giacomo Leopardi avrebbe a lungo soggiornato e qui avrebbe trovato ispirazione per scrivere La Ginestra è il tramonto della luna.

Sottratta all’incuria di secoli e riattata in stile moderno Villa Guerra è tornata oggi a nuovi splendori. Merito della famiglia Confuorto, imprenditori della zona, che punta a inserire Torre del Greco nel triangolo d’oro dell’alta cucina che ha come punte Napoli, Capri e la penisola sorrentina.

La scommessa per José Ristorante (il nome è una dedica alla moglie del proprietario) si è giocata sulla figura di un giovane Chef partenopea di solida scuola, Domenico Iavarone. Una scommessa per la proprietà che ambiva a volare alto e una scommessa anche per Iavarone che ha lasciato un ristorante a Vico Equense, patria di Gennarino Esposito, e di Peppe Guida, nomi altisonanti, dove aveva conquistato una stella Michelin per buttarsi a capofitto nell’impresa di Torre del Greco.

Di poche parole, ma molto incline al sorriso, Iavarone trasuda genuina napoletanità da tutti i pori. La sua dote principale è la disponibilità nei confronti degli altri, la capacità di dialogare con i suoi sottoposto in cucina per creare un clima di fattiva collaborazione o, se volete, di compartecipazione che si combina bene con un carattere incline all’umiltà e all’approfondimento costante. Napoletano di nascita ha trascorso però la sua gioventù a Casavatore un paese a quindici minuti di auto da Napoli che ha il triste primato del suolo più urbanizzato d’Italia ed è stato in passato teatro della triste faida di Scampia. Suo padre gestiva lì una macelleria e il giovane Domenico gran lavoratore, fin da piccolo, gli dava una mano. La cosa gli piaceva molto, al punto che immaginava che la macelleria sarebbe stata il suo regno futuro. E invece, buon per lui, l’esperienza maturata e la conoscenza acquisita in fatto di carni lo aiutarono molto quando si iscrisse all’Istituto alberghiero Cavalcanti di Napoli. Il passaggio dal mondo della macelleria a quello della ristorazione è venuto quasi spontaneo si potrebbe dire senza clamori. “Io suppongo – notare il verbo supporre in luogo di verbi affermativi – che la cucina non si possa scoprire …. è una cosa che ti senti dentro. Anche se da giovane non avevo mai immaginato di fare il cuoco mi sono ritrovato a farlo solo perché nel momento in cui ti avvicini a questo mondo vieni travolto da tutto quello che lo circonda dalle materie prime … alle opportunità che ti da di viaggiare e di aprire la mente per poi riportare tutto questo alla personalità che esprimi nei piatti. Perché a mio parere la cucina è un sentimento e ogni cuoco la esprime come la sente”.

E il giovane Domenico Iavarone si ritrova all’improvviso che non può fare a meno di cucinare perché, dice, “non bisogna vedere la cucina o un cuoco come uno che fa da mangiare ….io suppongo che in tante occasioni la cucina ha dato dimostrazione di essere salute, confronto, conoscenza, e poi col tempo in tutta verita’ la cucina ti forma….ti da disciplina e ti apre la mente per vedere in un pomodoro quello che gli altri non vedono”.

Ecco, l’ansia di vedere quello che gli altri non vedono, lo spinge ad andare giovanissimo in Spagna, la nuova frontiera della ristorazione degli anni ’90, a studiare in profondità le cose, ma su tutto poi c’è il sentimento che dà una spinta ulteriore alla tua formazione professionale. E fondamentale è la sua lunga esperienza vissuta accanto a Oliver Glowig, il grande chef stellato tedesco che per sentimento, leggi amore per la solarità della cucina italiana ha lasciato la Germania per trasferirsi a Capri dove ha messo su famiglia (se non è amore questo…) rivoluzionando la ristorazione di qualità nel settore alberghiero, e poi accanto a Gennarino Esposito, altro gran sacerdote del sentimento partenopeo, nel sacro tempio della perfettibilità della cucina bistellata della Torre del Saracino a Vico Equense.

“Per me – dice Iavarone – la Torre del Saracino è il posto del cuore, un posto dove il sentimentalismo in cucina sprigiona eruzioni di idee, dove Gennarino ti da una carica incredibile per addentrarti nei sapori del territorio di sapori e scoprire sapori che hai a portata di mano e non te ne eri mai accorto”.

Con questa scuola Domenico Iavarone scopre l’importanza di una raffinata semplicità in cucina, scopre come stupire con i suoi piatti mettendoci dentro il sole di Napoli e il mediterraneo. Come accade con il suo uovo in purgatorio con gamberi rossi, o con il risotto, limone, scampi e liquirizia, o come accade ancora con la Triglia in patate fritte, lattuga romana e ravanelli. Piatti che si porta dentro da anni forse i primi che lo hanno segnato da quando ha iniziato a gestire una cucina da solo”.

E’ arrivato il successo, è arrivata la stella Michelin ma Domenico Iavarone non dimentica le sue origini, mantiene l’umiltà di un ex figlio di macellaio che però partendo dalla conoscenza della carne, dei tagli di carne, degli orti del suo paese ha conquistato il suo posto al sole fra i grandi chef italiani in una location di prestigio come Villa Guerra dove ti devi confrontare con la storia.

“Il successo – dice con encomiabile generosità – e quello che si vive quotidianamente avendo la consapevolezza di fare un buon lavoro e di stare in sintonia con la squadra che ti supporta nei progetti. E’ ovvio che i riconoscimenti sono importanti ma se non sono condivisi… Dalle nostre parti diciamo che una sola noce in un sacco non fa rumore! Eppoi una cosa alla quale ho sempre tenuto nella mia vita sono i rapporti umani, quelli fatti di sostanza e non di apparenza!”

E un rapporto speciale lo lega al suo secondo in cucina, Enrico Moschella, un curriculum di grande rispetto, dalla Locanda Locatelli al Dorchester Park Lane di Londra, dal ristorante stellato Capri di Zermatt in Svizzera; all’Olivo 2 stelle Michelin del Capripalace di Anacapri, al Monzù di Punta Tragara. Con lui è un continuo gioco di rimandi e provocazioni per studiare i nuovi piatti da mettere in menù, un gioco che nasce dall’affiatamento e dal grande rispetto reciproco fra Chef e Sous Chef.

Dalla sua originaria esperienza nella macelleria paterna lo Chef ha ereditato il sacro rispetto per la materia prima, quando il padre gli mostrava i tagli di carne non li agguantava li accarezzava. E Iavarone nella sua cucina oggi cerca in ogni modo di far uscire l’anima degli ingredienti, di metterli in bella evidenza non solo gustativa ma anche estetica perché siano confacenti al luogo magico in cui prendono vita secondo la rigorosa legge del QTC, che è la sua insegna ideale e che sta per Qualità – Tecnica – Creatività, una legge cui si assoggettano sia i piatti tradizionali che le nuove preparazioni che escono annualmente dal suo cilindro, o meglio, dalla sua Toque.

Una legge così rispettosa della naturalezza e dell’ambiente al punto che Iavarone mai dimenticando la fantastica collocazione geografica del “Jose Restaurant” e il retaggio storico di questi luoghi ha voluto mettere in menù quella crema fritta che tanta consolazione dava a Giacomo Leopardi, chiuso nella sua casa poco distante da Villa Crespi, quando era afflitto dalle sue pene d’amore e di salute.

A questa operazione che ha rappresentato una vera e propria sfida sia per Iavarone che per la famiglia Confuorto, nel voler riportare la Torre del Greco che fu a nuovi splendori di eccellenza e di convivialità la Guida Michelin ha reso omaggio conferendo la sua prestigiosa stella con questa motivazione: “Settecentesca villa vesuviana risorta dopo un attento restauro, splendida nel suo candore e circondata da un vasto giardino, offre piatti creativi, ma non disdegni della tradizione; aperitivi con tapas di qualità. Una stella • una cucina di grande qualità, merita la tappa”.

Una stella che è stata festa per la città al punto che il sindaco di Torre del Greco ha ricevuto in Comune Iavarone e i Confuorto per consegnare loro una targa a nome dell’Amministrazione Comunale della Città di Torre del Greco in cui si complimentano “per la maestria e la professionalità dimostrate nell’arte culinaria, che molto lustro hanno conferito alla città, auspicando mete e traguardi sempre più importanti”.

Ma forse la definizione che meglio rende il carattere di Iavarone e soci è questa dedica nel menù che racchiude la sua napoletanità, il suo radicamento profondo nel territorio, la sua generosità:  “Amore per la propria terra, amore per il proprio lavoro, amore per il gruppo. Si perde tutti insieme e si vince tutti insieme! Oggi diventiamo uno dei migliori ristoranti d’Italia e del Mondo. Il nostro dovere è portare alto il nome della nostra città e far vivere le nostre tradizioni in ognuno dei nostri ospiti. Tutti noi vi ringraziamo per l’affetto dimostratoci in questi difficili e bellissimi anni!”.

Applausi, altamente meritati!

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