Del nebuloso futuro della Libia l’unica cosa certa è che nulla sarà come prima: che si ponga attenzione agli aspetti politico-istituzionali – ad iniziare dalla possibilità di preservare l’unitarietà nazionale di un territorio geograficamente immenso (pari alla somma di Francia, Germania, Spagna, Italia) con forte controllo delle popolazioni tribali – o a quelli economici, specie riguardo l’industria petrolifera, settore dominante dell’economia libica cui contribuiva per il 50% del prodotto interno lordo, il 95% delle esportazioni, il 75% degli introiti governativi.
La storia del petrolio in Libia è stata fortemente influenzata dopo la salita al potere di Muammar Gheddafi nel settembre 1969 dalle vicende politiche interne e dal loro intrecciarsi con quelle internazionali. Quarto paese produttore di petrolio al mondo (al di fuori di Stati Uniti ed ex-Urss) con 3,4 milioni barili/giorno, la Libia dopo l’avvento di Gheddafi riduce verticalmente la sua produzione a 1,0-1,2 lungo tutti gli anni 1980: per le politiche restrittive sostenute in ambito Opec e soprattutto per l’avvio dello scontro tra Stati Uniti e paesi arabi estremisti di cui la Libia era considerata la punta di diamante (con i bombardamenti di Tripoli e Bengasi nel 1986). Produzione che riprende a crescere gradualmente dai primi anni 1990 in parallelo alla ‘riabilitazione’ internazionale della Libia e al rientro dei capitali esteri sino a raggiungere una punta di 1,8 milioni barili/giorno prima della recessione del 2008 e circa 1,7 allo scoppio della crisi.
La ragione di questo andamento ad U della produzione sta nell’estromissione prima e rientro poi delle imprese internazionali e, parallelamente, nel crollo e ripresa degli investimenti, che hanno consentito dal 1995 al 2010 di quasi raddoppiare la consistenza delle riserve con un loro orizzonte di sfruttamento a 78 anni per il petrolio e a 100 anni per il metano (agli attuali tassi estrattivi). La Libia, in conclusione, ha una produzione relativamente contenuta (2% di quella mondiale per il petrolio e 0,5% per il metano) ma ha potenzialmente un grande futuro. Chi se ne avvantaggerà? Questo è il primo interrogativo cui rispondere.
Sostituire le imprese che vi operano già da lungo tempo, ne conoscono minuziosamente territorio, giacimenti, infrastrutture, come è per ENI (prima impresa estera), sarebbe una decisione non solo tecnicamente e giuridicamente molto complessa ma soprattutto controproducente per le nuove autorità libiche perché rallenterebbe l’uscita dall’emergenza e la ripresa delle attività estrattive da cui dipendono gli introiti monetari di cui massimamente abbisognano. Le prime mosse del Governo provvisorio, a cominciare dall’intesa raggiunta a Bengasi con l’ENI il 29 agosto, confortano sulla possibilità che la società guidata da Paolo Scaroni possa rapidamente riprendere la sua attività, premiandola della posizione molto accorta tenuta durante tutto l’arco della guerra: con una posizione di indipendenza tra le parti – che ha sempre contraddistinto l’operato di ENI nei conflitti arabo-israeliani –, il pieno rispetto degli impegni contratti con Stato libico, il mantenimento di un minimo di produzione di metano che consentisse una pur parziale erogazione di elettricità.
Ciò premesso, appare tuttavia verosimile che la posizione tenuta dai vari governi nella guerra a sostegno dei ribelli – legittimata dalla Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (17 marzo) – abbia a influenzare l’atteggiamento delle nuove autorità, così come della stessa NATO, verso la nazionalità delle imprese che andranno ad operare in Libia. Da questo punto di vista si trovano sicuramente in una posizione relativamente migliore quelle dei paesi che più si sono impegnati a sostegno dei ribelli (Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia, Qatar) rispetto alle imprese dei paesi contrari all’intervento militare, come Russia, Brasile, Cina.
Nel gioco dei vincitori/vinti molto dipenderà dall’Unione Europea: dalla sua capacità di evitare il rischio, di cui si intravvedono alcuni negativi segnali, che ogni paese europeo tenti di difendere o allargare i propri interessi a scapito di altri. Se così fosse, come ha scritto Vincenzo Camporini già Capo di Stato Maggiore della Difesa, “vedremo presto chi saranno i vincitori, ma già conosciamo chi è stato il principale perdente: l’Unione europea”.
Il secondo interrogativo attiene a “quando e come” avverrà la ripresa della produzione. Sul quando vi è grande incertezza per le scarne e discordanti informazioni sui danni subiti dagli impianti e dalle infrastrutture. L’ipotesi abbastanza condivisa è che necessiti almeno un anno per riportare la produzione a 1,0 mil.bbl/g e sino a 18-24 mesi per riprenderla interamente, mentre per le esportazioni di metano, che più ci interessano, i tempi dovrebbero essere abbastanza brevi. Passando al come due sono gli aspetti di cui tener conto. Il primo è la possibilità che da parte delle nuove autorità, tornate le cose ad una qualche normalità, si richieda una revisione dei contratti in essere, come sempre avvenuto con paragonabili rovesciamenti rivoluzionari, perché espressioni del vecchio regime e per l’inevitabile necessità dei nuovi governanti di soddisfare le pressioni dei movimenti popolari a migliorare le loro condizioni di vita. Un’esigenza che ridurrà le risorse finanziarie all’industria ma allargherà, contestualmente, il possibile ruolo delle imprese estere.
Sul modo in cui quelle petrolifere, e questo è il secondo aspetto, sapranno rapportarsi al mutato contesto politico-istituzionale della Libia si giocherà molto del futuro del paese e del loro futuro. Una difesa ad oltranza della sacralità dei contratti in essere potrebbe essere una posizione perdente. Mentre sarebbe lungimirante una strategia che punti alla valorizzazione delle grandi risorse petrolifere di cui il paese dispone con innovative piattaforme contrattuali che mirino contestualmente allo sviluppo economico e sociale della ‘nuova Libia’. Una strategia che ha sempre visto l’ENI – senza soluzione di continuità con le politiche matteiane – acquisire una riconosciuta posizione di leadership nei tanti paesi del Sud del mondo in cui opera.