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Annuario R&S Mediobanca sui grandi gruppi italiani: 5 anni di delusioni, ma non mancano le perle

E’ un quinquennio molto deludente quello che emerge dall’Annuario di R&S-Mediobanca sulle performance dei 50 maggiori gruppi italiani quotati in Borsa. Tra il 2006 e il 2010 i risultati di bilancio segnalano una caduta del 32% mentre la capitalizzazione di Borsa è scesa del 41%. Brillanti invece Danieli, Astaldi, Exor/Fiat, Terna, Prysmian, Tod’s e Parmalat

Annuario R&S Mediobanca sui grandi gruppi italiani: 5 anni di delusioni, ma non mancano le perle

Le performance di bilancio e di Borsa dei 50 maggiori raggruppamenti italiani quotati tra il 2006 – 2011 (marzo) lasciano l’amaro in bocca per quanto sono state deludenti. Naturalmente, non mancano le perle e chi va controcorrente, ma i numeri parlano chiaro. L’aggregato dei 50 maggiori gruppi quotati, 39 industrie, 6 banche e 5 assicurazioni, ha segnato, tra il 2006 ed il 2010, una caduta del risultato netto del 32%, da 38,5 a 26,2 miliardi di euro. Il calo non ha risparmiato nessuna attività, colpendo più duramente la finanza, con le assicurazioni in riduzione del 44,3% e le banche in flessione del 48,5%. L’industria ha contenuto l’erosione degli utili al 22,2%. All’interno della grande industria gli andamenti sono disparati: quella pubblica ha fatto meno peggio della privata (-15,1% contro -35,2%). L’effetto è in buona parte da ascrivere alla crescita dell’Enel (“effetto Endesa”) che ha incrementato gli utili del 44,6% e senza la quale la caduta degli utili pubblici sarebbe stata del 30%. Tutti gli altri colossi pubblici segnano infatti vistosi arretramenti (ENI: -31,5%; Finmeccanica: -50,2%, nonostante l’acquisizione della DRS Technologies). All’interno del comparto pubblico vi è differenza tra società a controllo statale, che cedono (-12,4%, -28% senza Enel), e local utilities a controllo per lo più comunali, che mostrano un buon dinamismo (+8% la variazione degli utili), anch’esse sostenute da una vivace attività di aggregazione. Caso a sé la “pubblica” Edison (metà statale con EdF, metà locale con A2a) i cui utili tracollano del 97%, praticamente azzerandosi (anche a causa delle svalutazioni delle attività egiziane). L’industria privata riduce gi utili del 35,2%, compensando andamenti contrastanti: la manifattura li accresce del 12,9% i servizi e le attività non manifatturiere li vedono sgonfiarsi del 55,4%. Il risultato delle attività manifatturiere è condizionato dalle vicende della Pirelli che nel 2006 perdeva oltre un miliardo (svalutazione Olimpia); escludendola, anche la manifattura avrebbe registrato un arretramento degli utili attorno al 25%.
Le società che rispetto al 2006 hanno messo a segno la maggiore crescita degli utili sono la Danieli (più che
quadruplicato), Astaldi e Exor/Fiat (raddoppiato), Iren (+81%), Terna (+68%), Prysmian (+66%), Tod’s (+65%) e la Parmalat (+46%).
Le debacle più importanti hanno colpito Edison, Caltagirone e RCS che hanno sostanzialmente azzerato gli utili (flessioni superiori al 97%), ma soprattutto i gruppi che in utile nel 2006 hanno chiuso il 2010 in perdita (Buzzi, Saras, De Agostini, Gemina, Premafin e Seat PG). Tra le banche, importante la flessione di Unicredit (-76%), lievi ma significativi gli incrementi di Intesa (+6%) e MontePaschi (+8%). Cinque società hanno cumulato perdite nette dal 2006 al 2010: Gemina (-15 mil.), Premafin HP (-127 mil.), STMicro (-585 mil.), Seat PG (-707 mil.) e Pirelli & C. (-1.305 mil.). Unicredit ha cumulato utili appena superiori a Intesa (18,5 mld. vs 17,9). La nuova Parmalat ha cumulato utili netti per 2,3 mld, quanti quelli di Terna. il gruppo Fininvest per 1,1 mld., cinque volte di più del gruppo De Benedetti (0,2 mld.). Quattro gruppi (ENI. Enel, Unicredit ed IntesaSanpaolo) da soli hanno realizzato negli ultimi cinque anni il 60% degli utili dell’insieme.
La Borsa ha ridimensionato il valore dei grandi gruppi con una caduta delle quotazioni comparabile a quella degli utili nel periodo: la capitalizzazione è scesa tra fine 2006 e fine 2010 del 41%, colpendo, come già per gli utili, più duramente le banche e le assicurazioni (-52% entrambe) che industria (-34%). I grandi gruppi pubblici hanno sofferto in Borsa come quelli privati (-34% e -35%). Le società statali hanno flettuto quanto quelle in mano agli Enti Locali (-33% e -35%), la cui crescita non è stata quindi premiata da Piazza Affari. Edison ha dimezzato il proprio valore e rappresenta l’operatore “pubblico” dalla performance più deludente. La manifattura privata, che come visto ha recuperato utili sul 2006, ha invece lasciato sul terreno molto meno dei servizi (-7,5% contro 54%), segno di una qualche fiducia della Borsa verso queste attività. Una conferma? I multipli di Borsa: sono in calo generalizzato sul 2006 (da 14,3x a 11,6x), con la sola eccezioni del settore manifatturiero privato (da 17,6x a 19,7x).

La “regina” di Borsa nel periodo è la Exor (+43%) e nel quinquennio sono poche le società ad avere messo a segno una crescita di valore: Danieli & C. (+40,5%), Davide Campari (+30,2%), Terna (+24,2%), Tod’s (+21,6%) e Recordati (+20,5%), tutte società che hanno realizzato anche importanti crescite di utili nel periodo. Seat PG ha perduto il 96% del proprio valore.

L’industria tra 2009 e 2010: forte ripresa, ma più sui volumi che sui margini

Questi i risultati aggregati dei grandi gruppi industriali:
Fatturato: in crescita nel 2010 dell’11,5% (gruppi privati: +9%, pubblici: +15%). Il confronto con i valori del 2006, (al netto dell’effetto Enel), indica che i grandi gruppi industriali hanno recuperato quanto a volumi commerciali (vendite); lo hanno fatto in maniera più marcata i gruppi pubblici, in buona parte protetti, tariffate e legati al petrolio (+17,1%), in misura intermedia i servizi e le attività non manifatturiere private (+6,5%), in modo più marginale la manifattura privata (+1,7%). Lo Stato (quello centrale) ha segnato un +17,6% (ma la sola Enel, esclusa da questi conteggi ha raddoppiato
il fatturato, da 37,5 a 71,9 mld.), meglio dei governi locali che con le proprie local utilities sono cresciuti del 9% circa.
MON: in crescita sul 2009 del 21,4% (Gruppi privati: +12,3%, pubblici: +29,5%). Il confronto con il 2006 indica che i margini sono ancora sotto i livelli pre-crisi (come già visto per gli utili): -12,3% l’insieme dei maggiori gruppi, -7,6 quelli pubblici, addirittura -17,7% i gruppi privati, con la manifattura che segna la maggiore distanza (-18,7%) dal 2006. La sola nota positiva viene dalle local utilities che, anche per effetto di acquisizioni ed integrazioni, hanno potuto accrescere i propri margini del 34% sul 2006.
L’incidenza del Mon sul fatturato: conferma che c’è ancora strada da fare prima del rientro: il rapporto si è fissato nel 2010 al 12,3%, certo in crescita dall’11,3% del 2009, ma ancora 3 p.p. sotto il 15,4% del 2006 (al netto dell’effetto Enel). I grandi gruppi pubblici, favoriti dalla natura dei settori in cui operano, riportano margini migliori dei privati ma ciò che accomuna trasversalmente tutti i settori è la distanza dal 2006: i gruppi pubblici sono caduti dal 19,1% al 15%, quelli privati 12,5% al 10%. In evidenza, anche da questo punto di vista, le local utilities che riescono ad accrescere la propria profittabilità, portandosi dal 10,7% al 13,2%.

Rispetto a queste tendenze vi sono singole eccezioni. La crescita del fatturato dal 2006 non ha toccato la Seat PG che ha preso il 24% dei ricavi, Impregilo (-23%), Italmobiliare e Buzzi Unicem (-17%), Telecom Italia (-12,7%), Indesit (-11,4%) e A2a (-10%).
Alcune società hanno subito inoltre riduzioni del mon tra 2009 e 2010: si tratta della Buzzi (-56%), Italmobiliare (-30,5%), Impregilo (-17,3%), Tenaris (-15,4%), Seat PG (-15%), Caltagirone (-7,2%) e della Saras che passa da +111 milioni a -31 milioni di euro, unico gruppo a riportare un mon negativo nel 2010. La Campari è la società manifatturiera con il migliore rapporto tra mon e fatturato (23%), seguita dalla Recordati (21,3%), ma lontane dalle utilities Terna (53%) e Acea (34,5%) e dalla Seat (35%).

La struttura finanziaria: qualche nota positiva

La struttura finanziaria dell’industria segna nel quinquennio un incremento dei mezzi propri del 19% (netto di Enel) a fronte di un aumento del 23% dei debiti finanziari. Si tratta di una dinamica che ha lasciato sostanzialmente stabile il debt/equity marginalmente cresciuto di circa 3 p.p, dall’88% al 91% di fine 2010. I grandi gruppi pubblici hanno spinto maggiormente sul debito che è aumentato del 70,1% contro il +27% del patrimonio netto, con i gruppi statali (sempre al netto di Enel) che hanno raddoppiato la massa debitoria (+110%): ciò ha portato ad uno scadimento del loro rapporto debt/equity dal 47% al 63%, ma esso resta su livelli di tranquillità e ben al disotto della media dell’insieme. Fa eccezione in questo Enel che, dopo l’operazione Endesa, ha visto il proprio rapporto passare dal 72% al 119%. Solo le local utilities, che pure hanno avuto l’accortezza di accresce mezzi propri e debito finanziario in egual misura nel quinquennio (circa del 25%), presentano un profilo relativamente più fragile con un debt/equity attorno al 120%. Si tratta di un livello non dissimile da quello dei gruppi privati attorno al 114% che tuttavia hanno saputo mantenerlo sostanzialmente stabile nel periodo per effetto di un aumento dei mezzi propri più generoso rispetto a quello dei debiti finanziari (+13% contro +9%). All’interno dell’industria privata si segnala la diversa solidità patrimoniale della manifattura (debt/equity al 96%) rispetto ai servizi e attività non manifatturiere (128%).
Nel 2010 i grandi gruppi hanno dato corso ad un complessivo rafforzamento patrimoniale, mettendo a segno una buona progressione dei mezzi propri (+10%) a fronte di un modesto rialzo del debito finanziario (+2,6%), con miglioramento del rapporto debt/equity dal 97% al 91%. Si tratta di una tendenza che interessato tanto i grandi gruppi pubblici (+9,3% i mezzi propri, +5,3% il debito finanziario) che quelli privati (+13% il patrimonio netto, +9% il debito finanziario).
La composizione del debito finanziario per scadenza indica un’incidenza del debito finanziario a breve attorno al 23% del debito totale, mentre la parte a medio lungo termine (il restante 77%) è rappresentata per circa il 60% da debito obbligazionario (Tab. 6)
Sono diciassette i grandi gruppi italiani con un rapporto tra debito e mezzi propri (debt / equity) superiore all’unità. Seat PG segna la situazione di gran lunga più sbilanciata, con un rapporto pari al 780%, più che raddoppiato dal 330% del 2006.
Riportano valori superiori al 200% Edizione, Exor ed Astaldi. I gruppi meno dipendenti dal debito finanziario sono Parmalat (i debiti sono l’1% dei mezzi propri) Tenaris e Tod’s (12%) e la Recordati (12,1%). La Tod’s, dato il livello risibile di debito, si è potuta permettere di triplicarlo dal 2006 (+257%). Escludendo Enel (+368%), i maggiori incrementi di debito dal 2006 hanno riguardato Bulgari (+172%), che mantiene un debt/equity molto basso al 27%, Eni (+138%), con debt/equity pure basso al 50%, e Terna (+113%) il cui rapporto è invece elevato, al 192%. Eclatante l’abbattimento del debito da parte di Parmalat (-95%, da 700 a 36 milioni), molto importante quello di Pirelli (-61%, da tre a 1,1 miliardi). Tra le società che hanno maggiormente aumentato il debito finanziario nell’ultimo anno si trovano Terna (+22,6%), Prysmian (+26,6%) e Fininvest (+25,7%).

In sala trucco: la posizione finanziaria netta

Alcune raccomandazioni del CESR del 2005 e della Consob consentono l’indicazione in bilancio di “indicatori alternativi di performance” tra cui la posizione finanziaria netta. Essa è calcolata deducendo dal debito finanziario la cassa, i titoli negoziabili e i crediti finanziari correnti. Si tratta di compensazioni che modificano in modo sostanziale l’importo del debito finanziario complessivo e che si prestano a distorsioni nel significato da attribuire alle cifre (che non può essere sostitutivo di quello derivabile dai saldi elementari di bilancio, come del resto raccomandato dalle stesse authorities). L’unico significato che è possibile assegnare alla PFN è una possibile presenza di tensioni nella gestione dei flussi finanziari, scontando il fatto che nei bilanci consolidati l’allocazione dei passivi finanziari non è simmetrica a quella degli attivi e che questi ultimi hanno valori che possono oscillare in base alle dinamiche dei mercati finanziari. Per sei tra i maggiori gruppi la posizione finanziaria netta a fine 2010 risulta negativa, con attivi che superano i passivi.
Si tratta di Parmalat, Danieli, Tod’s, STM, Recordati e Tenaris, che dispongono di liquidità in misura superiore al debito finanziario (il caso più eclatante è quello di Parmalat con cassa e titoli per 1,4 mld. e debiti finanziari per 36 milioni). I sedici casi il debito finanziario viene abbattuto di almeno un quarto. La “rettifica” più drastica è quella su Exor/Fiat che, partendo da un debito finanziario di 32,4 mld. arriva ad una PFN di 1,1 mld. (riduzione del 96%). Seguono Caltagirone (la PFN è pari al 15% del debito di bilancio), Impregilo (26%), Prysmian (35%) e Pirelli & C. (40%).

Produttività e costo del lavoro pro-capite: la competitività

Tra il 2006 ed 2010 il valore aggiunto netto per dipendente, proxy della produttività, ha segnato un regresso dello 0,9% (attorno ai 110mila euro per dipendente) che ha coinvolto tanto i gruppi pubblici (-3,6%) che quelli privati (-6,4%). Nel comparto pubblico tengono solo le local utilities (dato invariato sul 2006 a 127mila euro), in lieve calo le statali (-3%), ma con andamento contrastante tra Enel (+33,6%) ed Eni (-12,2%). L’industria privata segna valori pro-capite sensibilmente più bassi (73mila euro) anch’essi in riduzione sul 2006 (-6,4%) e molto differenziati tra la manifattura (57mila euro la ricchezza prodotta da ogni dipendente) e servizi (101mila euro). Il costo del lavoro pro-capite è aumentato nello stesso periodo dell’11,1% (a 50mila euro), più nei gruppi pubblici (+10,9%) che in quelli privati (+7,3%), più nelle società statali (+12,7%) che nelle local utilities (+3,9%) e molto più nei servizi (+13,6%) che nella manifattura (+5,1%). Il costo del lavoro nei gruppi pubblici (61mila euro) è quasi il 40% più elevato di quello dei gruppi privati (44mila euro), il valore aggiunto dei gruppi pubblici (187mila euro) è 1,5 volte quello privato (73mila euro). La quota di valore aggiunto assorbita dal costo del lavoro è molto più elevata nei gruppi privati (60,3%) che in quelli pubblici (32,6%), per effetto del diverso mix settoriale. La manifattura sconta le condizioni operative più sfidanti che si traducono in una pressione sui margini più forte (costo del lavoro / valore aggiunto netto al 72%).
Terna è la società con il maggiore valore aggiunto per addetto nel 2010 (294mila euro), superiore a quello di Eni (287mila) ed Enel (203mila). Il Gruppo manifatturiero con il più alto valore aggiunto netto è la Davide Campari (184mila euro) cui segue la Recordati (125mila). Fininvest segna il costo del lavoro pro capite più elevato (104mila euro), seguito da RCS MediaGroup (63mila euro). All’estremo opposto la Indesit (26mila euro) e la Immsi/Piaggio (32mila).

Quanto estero nei gruppi italiani

I grandi gruppi italiani che realizzano fatturato all’estero hanno conseguito una crescita complessiva delle vendite pari al 20% circa rispetto al 2006. Si tratta di una progressione che media due tendenze disparate: la crescita sul mercato domestico, pari ad appena il 3%, e quella sul mercato estero dove la essa ha toccato il 37%. L’incidenza del fatturato estero sul giro d’affari complessivo è così cresciuta dal 2006, passando dal 49% al 56%. L’espansione di Enel e l’acquisizione di Endesa hanno avuto un peso rilevante in questo processo, giustificando oltre il 70% del maggiore fatturato estero del coacervo (36 mld. su 49 mld. di maggiori ricavi). Conseguentemente sono i gruppi pubblici (statali) a segnare il maggiore incremento di fatturato estero (+67%), cui si abbina una più modesta crescita casalinga (+14%), mentre i gruppi privati riescono ad accrescere il fatturato estero del 15% ma pagano una flessione del 9% in patria. La manifattura privata, a fronte di una crescita dell’11% all’estero segna una forte flessione domestica (-21%) e dunque accresce la percentuale di fatturato estero sul totale portandola al 78%, ben al di sopra del 53% dei gruppi pubblici e su livelli doppi rispetto ai settori non manifatturieri. Anche l’occupazione estera cresce, il suo peso sul totale è passato dal 44% al 56% tra 2006 e 2010, per effetto della riduzione della componente nazionale (-11,5%) e la crescita di quella estera (+36%). Il fenomeno ha dimensioni macroscopiche per l’industria pubblica (+82% la variazione all’estero, -11,5% quella domestica), ma si ripropone invariato anche nel settore privato (-14,8% l’occupazione domestica, +22,4% quella estera), un po’ più smorzato nella manifattura (-1% e +16,6%), molto marcato nelle altre attività (-30,8% in casa, +54% all’estro).

Tra i maggiori progressi in termini di incidenza del fatturato all’export sul totale si segnalano Enel (+43,6 p.p.), Impregilo (+29,2 p.p.), Eni (+6,1 p.p.) e Pirelli (+17,5 p.p.). Tra i maggiori venditori all’estero del 2010: Pirelli (90% del fatturato), Bulgari (89%) ed Indesit (84%). Impregilo (87%), Pirelli (86%) e Parmalat (85%) i gruppi con il maggiore numero di dipendenti all’estero.

Gli investimenti e l’occupazione

Nel 2010 gli investimenti materiali dei maggiori gruppi si sono assestati a 34,4 mld., il 20% al di sopra del livello del 2007. Diciassette dei 39 maggiori gruppi industriali hanno accresciuto i propri investimenti nel 2010 rispetto al 2007. A livello aggregato, i Gruppi pubblici hanno aumentato il volume degli investimenti del 35%, mentre quelli privati li hanno ridotti del 2,4%. Il 2010 segna una lieve ripresa degli investimenti anche rispetto al 2009 (+3,6%), con 21 gruppi su 39 che li hanno aumentati o almeno mantenuti invariati.
L’occupazione ha segnato nel 2010 una lieve ripresa (+0,4%) sul 2009, mentre resta del 6% superiore ai livelli di fine 2007. Rispetto al 2009, la tenuta occupazionale è da ascrivere ai grandi gruppi pubblici (+1,7%), mentre i privati hanno segnato una lieve flessione (-0,3%). Anche rispetto al 2007, tuttavia, la spinta occupazione è venuta essenzialmente dai gruppi pubblici (+17,6%), mentre i privati hanno generato un apporto marginale (+1,4%), positivo nella manifattura (+5,2%), negativo negli altri settori (-5,8%).

Dividendi e payout

Il monte dividendi, dopo essere caduto nel 2009 da 12,9 mld. a 10,7 mld di euro (-17,1%), segna nel 2010 una ripresa portandosi a 11,6 mld. (+7%). Si tratta di una somma inferiore di circa il 25% rispetto ai 15,8 mld. realizzati nel 2007. Solo i grandi gruppi pubblici hanno beneficiato di maggiori dividendi (+9,5%, da 7,6 a 8,3 mld.), quelli privati hanno sostanzialmente confermato il livello complessivo in essere dal 2008 (attorno ai 3,3 mld.): le attività manifatturiere hanno subito una riduzione (-17,4%), mentre i servizi segnano un buon progresso (+15,8%). Dal 2006 lo Stato ha introitato a titolo di dividendo 6,5 mld. da Eni, 4,4 mld. da Enel e 325 milioni da Finmeccanica (11,2 mld. il complessivo). Gli Enti locali a capo delle local utilities hanno invece cumulato nel periodo 1,3 mld. Il payout complessivo si mantiene stabile attorno al 55%. Considerando il cumulato del periodo, i gruppi pubblici hanno un payout (60%) superiore a quello dei privati (47%), la manifattura è abbastanza parca (solo 36% il cumulato) mentre gli enti locali si confermano voraci e le local utilities segnano payout in media pari al 92%. Nel 2010 sette società su 39 non hanno pagato dividendo (Fininvest, Edison, Saras, De Agostini, RCS Mediagroup, Seat PG e Gemina).

Primo trimestre 2011

Il primo scorcio del 2011 conferma la ripresa del 2010: il fatturato cresce dell’11,7% rispetto al primo trimestre del 2010, il mon del 13%, il risultato netto segna un miglioramento del 19%. La performance del coacervo privato è superiore a quella dei gruppi pubblici quanto a fatturato (+13,9% vs +10,2%), margini industriali (mon in progresso del 24% vs +10,2%) e risultato netto (34,4% vs 13,8%).
Particolarmente positivo l’inizio d’anno delle attività manifatturiere private, con fatturato in crescita del 15,6%, Mon in progresso del 33% e utile netto in forte aumento con un +76,4%. Il recupero dei margini si è abbinato ad ulteriori sintomi di rafforzamento patrimoniale: i debiti finanziari scendono complessivamente del 4% ed il rapporto debt/equity cala dal 102% al 97% (-5 p.p.).
 
Banche

Nel 2010 i ricavi delle maggiori banche hanno segnato una flessione dei ricavi (-4,5%), a causa della contrazione del margine di interesse (-7%), non compensato dai maggiori ricavi per commissioni (+7,3%), e del mancato apporto del risultato di negoziazione (marginalmente negativo). Le perdite su crediti sono in flessione del 17,3%, interrompendo un trend di ascesa ininterrotto dal 2007, con conseguente riduzione della propria incidenza sui ricavi che passa dal 25,3% del 2009 al 21% del 2010. La forte flessione delle svalutazioni ha consentito al coacervo delle maggiori banche di realizzare un utile in crescita del 4,4% sul 2009. I costi operativi (lavoro e spese amministrative), per quanto in riduzione rispetto al 2007 (-6%), mantengono la propria incidenza sui ricavi in flessione ed il cost/income ratio è tornato a salire nel 2010 (+3p.p.) portandosi al 67%.
Nel primo trimestre del 2011 i ricavi complessivi mostrano una sostanziale tenuta (+1,3%) rispetto al primo trimestre del 2010, con una lieve crescita del margine di interesse (+2,1%) ed un forte miglioramento del risultato di negoziazione (+45,3%) che peraltro era ampiamente positivo anche nel primo trimestre del 2010 per poi chiudere in negativo sui 12 mesi. Se queste prime tendenze dovessero confermarsi in corso d’anno, l’aggregato delle banche chiuderebbe il 2011 con ricavi comunque inferiori di circa il 10% rispetto al livello del 2007. Le perdite su crediti risultano in ulteriore flessione del 13%, una variazione che, se confermata sull’intero anno, porterebbe la massa delle svalutazioni dell’aggregato attorno agli 11 mld., in riduzione dai 15 mld. del 2009, ma ancora più che doppia rispetto alle consistenze del 2006 (4,9 mld.) per una incidenza sui ricavi attorno al 19% (era l’8% nel 2006). Un ulteriore elemento da valutare con attenzione è la flessione dei costi operativi (-1,2% sul primo trimestre del 2010). Ove l’incremento dei ricavi ed il contenimento dei costi si confermasse, si potrebbe aprire spazio per qualche recupero di reddività sull’intero 2011.
Le perdite su crediti hanno incidenze differenziate, particolarmente elevate per Unicredit: 25,9% dei ricavi nel 2010 e rispetto al 17% di Intesa Sanpaolo ed al 20% dei restanti istituti. L’elevata incidenza è confermata anche rispetto al patrimonio netto: 10% Unicredit contro il 5,2% di Intesa ed il 6/7% degli altri istituti.
I crediti deteriorati netti (Tab. 13) sono cresciuti da 44,8 miliardi di euro a fine 2008 (pari al 3,3% degli impieghi ed al 30% circa del capitale netto) a 76,7 miliardi (+71%) a fine 2009 (pari al 5,8% degli impieghi ed il 46,6% del capitale netto) a 85,5 mdl. a fine 2010 (6,4% degli impieghi e 50,1% del capitale netto) per portarsi a fine marzo 2011 a 87,2 mld, su livelli finalmente stabilizzatisi sia rispetto ai crediti alla clientela che al capitale netto. A marzo 2011 la situazione meno favorevole è del Banco Popolare i cui crediti deteriorati sono pari al 9,7% dei crediti alla clientela ed al 75% del capitale netto; sopra la media del panel per entrambi gli indicatori anche Banca MPS (rispettivamente: 8% sugli impieghi e 67,5% sul capitale netto).
Quanto invece al tasso di copertura, anch’esso pare essersi finalmente stabilizzato nel 2010 attorno al 42%, dopo la progressiva riduzione dal 51,3% del 2007. Le percentuali più basse sono del Banco Popolare (27,5%) e di UBI Banca (29,5%), mentre le politiche più prudenti sono di Mediobanca (44,5%) e Unicredit (44,4%).
A fine 2010 lo stock di 85,5 mld. di crediti deteriorati era composto per il 39,2% da incagli, 40% da sofferenze e per resto da ristrutturati (8%) e scaduti (13%) (Tab. 14). Nel 2009 la composizione dei crediti dubbi era stata modificata dal sostanziale raddoppio degli incagli il cui peso era divenuto preponderante sulle sofferenze (43,5% del totale i primi, 35% le seconde); nel 2010 il quadro si è ricomposto e, a fronte di una sostanziale stabilità degli incagli (33,5 mld.), è aumentata la massa delle sofferenze (+7,4 mld. a 34,2 mld.) che sono tornate ad essere proporzionalmente preponderanti. Sono altresì in riduzione di circa 2,5 mld. i crediti scaduti ed in progresso ci circa quattro mld. i ristrutturati. Tenuto conto che le “sofferenze” rappresentano la forma di più seria di deterioramento, le incidenze più ampie rispetto ai crediti (Tab. 15 e 15-bis) sono segnate da Banca Mps (3,5%) e Banco Popolare (3,0%), prime anche per incidenza sul capitale netto tangibile (55,6% e 42,5% rispettivamente). La maggiore concentrazione di incagli è in capo al Banco Popolare (4,6% sui crediti alla clientela e 64,1% del patrimonio netto). Si segnala che i crediti deteriorati rappresentano, a fine 2010, il 138,2% del capitale netto tangibile del Banco Popolare ed il 115,4% di quello di Banca Mps.
Parte dei crediti deteriorati è coperta con garanzie che ne compensano, in caso di inesigibilità, le svalutazioni (Tab. 16). A fine 2010, la quota dei crediti integralmente garantiti per i cinque maggiori istituti era pari al 53% circa, con valori della garanzie ampiamente capienti per una copertura più che integrale del credito (>100%). Un ulteriore 16% dei crediti deteriorati ha copertura parziale, mediamente per il 76% del proprio valore. In sintesi, circa il 68% dei crediti deteriorati ha copertura con garanzia, il che lascia per le maggiori banche, circa 27 miliardi di crediti dubbi netti senza assistenza; il valore complessivo delle garanzie è prossimo o superiore al 90% del credito. Ove si tenga conto di tali garanzie, tutte le misure di incidenza dei crediti dubbi (sui crediti, sui mezzi propri, ecc.) andrebbero ridotte di circa i 2/3. La quota di crediti totalmente garantiti più elevata è in capo a Banca MPS (63,4%), quella più bassa e di Unicredit (44,9%). Intesa Sanpaolo è al 57,5%. Unicredit ha la quota di garanzie complessive più contenuta (64,3%), UBI Banca quella più alta (76,9%).
La composizione degli attivi finanziari detenuti dai maggiori istituti ha subito significativi mutamenti nell’ultimo triennio, con un significativo aumento dei titoli di debito (bond) la cui incidenza è passata dal 42% del 2008 al 60% del 2010. Il portafoglio di UBI Banca è quello più ricco di titoli di debito (88% del totale), mentre MPS ha l’incidenza più bassa (51%). I derivati, dopo la riduzione del 2009, si sono stabilizzati ed incidono mediamente per il 7% degli attivi bancari dei maggiori istituti, cos’ comete attività di “livello 3”, quelle illiquide, mentre vi è una significativa riduzione nel 2010 delle passività di livello 3 (quelle emesse dalle banche italiane), soprattutto per il taglio in capo a Unicredit. Sempre dal lato del passivo, si segnala che i titoli di debito emessi dalle banche ed in scadenza entro un anno al dicembre 2010 ammontavano a circa 172 mld. di euro, il 33% dei titoli di debito emessi dalle maggiori banche, pari a circa 528 mld di euro.
La raccolta pro-capite più elevata è segnata nel 2010 da UBI Banca (5.444.000 euro per dipendente), quella più contenuta di Unicredit (3.841.000 euro). UBI banca segna il volume di credito alla clientela pro-capite più elevato (5.191.000 euro), contro il minimo di Unicredit (3.651.000 euro). Il costo del lavoro per addetto nel 2010 è così articolato: Intesa Sanpaolo 57mila, Unicredi 60mila euro, Banca MPS 70mila euro, UBI Banca 72mila, Banco Popolare 84mila euro.
Unicredit aveva a fine 2010 il maggiore numero di sportelli (Tab. 22): 8.690 (in calo del 7% dai 9.321 del 2008), di cui 4.180 all’estero; seguono Intesa Sanpaolo (7.570, di cui 1.761 all’estero), con un calo del 20% dagli 8.496 di fine 2008. Il minore numero di sportelli è per UBI Banca (1.901) non dissimile da Banco Popolare (2.120). La raccolta per sportello più elevata è appannaggio di Unicredit (67 milioni), seguito da Intesa e UBI Banca (56 milioni), Banca MPS (54 milioni) e Banco Popolare (49 milioni). Complessivamente gli sportelli calano del 3,4% tra 2009 e 2010, del 3,6% all’estero e del 2,7% in Italia. La raccolta per sportello aumenta del 3,5%.

Il rapporto con la Borsa è ora burrascoso. A fine luglio il valore delle principali banche era meno di un terzo di quello a fine 2006 ed anche il monte dividendi è crollato a un quinto del suo valore nel 2006.

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