Abbiamo sbagliato, riconosciamolo. L’astensione del Partito democratico sulla mozione dell’Idv che chiedeva l’abolizione delle province non è piaciuta a molti dei nostri elettori e ha contraddetto -almeno in parte- i nostri stessi pronunciamenti dei mesi passati. Si, certo, si trattava di un voto “simbolico”. Si, certo, il problema ha sempre aspetti più generali e rimanda doverosamente a riforme di maggiore respiro. Si, certo, una rivisitazione di tutta la filiera che conduce dagli enti locali allo Stato centrale richiede di ripensare innanzitutto l’enormità di competenze che si sono accumulate nelle regioni -e che sono a mio parere il principale elemento distorsivo con cui dobbiamo fare i conti. E tuttavia un voto a favore di quell’ordine del giorno sarebbe stato più limpido di quella astensione un pò tartufesca nella quale ci siamo infine rifugiati.
Chi scrive, notoriamente, non fa parte della schiera degli ammiratori politici dell’onorevole Di Pietro. Ho contestato a suo tempo l’alleanza elettorale che avevamo stipulato e temo che gli archivi delle agenzie di stampa conservino fin troppe tracce delle mie opinioni in materia. Debbo riconoscere però che, in questo caso, la ragione è dalla sua parte. Non perchè ci si debba mettere in prima fila nella corsa a chi tuona di più contro la casta e i costi della politica. Ma perchè -in tempi di federalismo annunciato- mettere ordine lungo la catena che lega tra loro le articolazioni territoriali del paese è un fondamentale programma politico. E il superamento delle province, a mio giudizio, va appunto in quella direzione.
Quando negli anni settanta furono varate le regioni (allora assai più snelle e funzionali di come poi sono diventate) si disse: supereremo le province. Da allora ne abbiamo aggiunte un discreto numero a quelle che c’erano prima. Una decina d’anni fa si è votato in Parlamento per insignire del prestigioso titolo le contrade di Monza, Fermo e Barletta. Chi scrive allora votò contro, guadagnandosi qualche “amico” in più da quelle parti. Nel frattempo, dietro lo scudo dei poteri speciali, la Sardegna ha raddoppiato le sue province: da quattro a otto. E chi abbia la pazienza di spulciare i documenti parlamentari scoprirà che ancora oggi è forte la pressione legislativa per aggiungere altri grani a questo lungo rosario.
Ora, sia chiaro, l’abolizione delle province non è la panacea di tutti i mali. Occorre ripensare l’intera architettura delle autonomie, e far valere il principio di sussidiarietà: si decentra non appena è possibile, si concentra solo quando è necessario. Se ci dessimo quel principio come bussola, avremmo già fatto un bel pezzo di cammino. Non serve una guerra tribale tra i territori nella quale ognuno difende -magari con qualche buona ragione- il proprio scalpo. Serve, appunto, un’idea dello Stato. Un’idea di come conciliare e armonizzare le infinite particolarità che connotano il nostro paese e le sue istituzioni. E quell’idea deve essere a sua volta coerente con una fondamentale idea dell’Europa e del nostro modo di starvi dentro.
Sarebbe il caso di cominciare questo ragionamento non appena è possibile. Cioè subito.
* Senatore del Pd