I due referendum “sull’acqua” rappresentano – purtroppo – un pessimo esempio di abuso di una importante istituzione democratica quale è il referendum abrogativo. E’ molto probabile che la stragrande maggioranza degli italiani voteranno Si o NO nella convinzione di decidere se l’acqua deve restare un bene comune pubblico o no. Lo stesso titolo del primo dei due referendum (“referendum sulla privatizzazione dell’acqua”) conforta questa convinzione.
Ma non è così. Il referendum abroga le disposizioni del decreto Ronchi-Fitto sulla liberalizzazione di un vasto numero di servizi pubblici locali: i più rilevanti sono quelli di trasporto locale, di captazione, depurazione e distribuzione dell’acqua, di raccolta e smaltimento dei rifiuti. In più il decreto Ronchi-Fitto stabilisce in modo esplicito che l’acqua è un bene pubblico, che pubbliche sono le relative infrastrutture (acquedotti, depuratori), e che alle istituzioni pubbliche spetta fissare le tariffe. L’acqua resta un bene comune e gratuito; si paga il servizio che la capta, la porta nelle case o nelle fabbriche, la depura. Il prezzo lo fissano i Comuni (oggi), l’Agenzia pubblica dell’acqua (domani). La stessa cosa avviene nello smaltimento dei rifiuti e nel trasporto locale (le strade cittadine restano pubbliche, e non si paga per camminarci sopra, si paga il trasporto sull’autobus, il prezzo è determinato dal Comune).
Dunque gli effetti del referendum: a) non riguarderanno solo l’acqua, ma anche molti altri servizi; b) non riguarderanno la natura del bene acqua e la sua proprietà, ma la gestione dei servizi.
Secondo il decreto Ronchi-Fitto, questi servizi (acqua, rifiuti, trasporto, ecc.) dovranno essere attribuiti in concessione (per un periodo predeterminato) alle imprese, pubbliche o private, che vinceranno apposite gare: vinca il migliore. Agli enti locali spetterà definire le condizioni e gli standard dei servizi (nei capitolati di gara e poi nei contratti di servizio) e controllare che siano rispettati (altrimenti potranno imporre multe o perfino revocare la concessione). Questa è la regola: la stessa che ispirò i precedenti tentativi di riforma, targati Giorgio Napolitano (I Governo Prodi) e Linda Lanzillotta (II Governo Prodi), entrambi non arrivati in porto. L’idea di fondo è che la gestione di questi servizi debba essere fatta da aziende industriali esperte e attrezzate: non importa se pubbliche o private o a capitale misto; importa scegliere le più efficienti, quelle che assicurano i servizi migliori a costi più bassi. E il meccanismo delle gare consentirà appunto di scegliere le imprese più efficienti. E costringerà tutti, a partire dalle imprese pubbliche, a migliorare la loro efficienza e a rinunciare a superprofitti, altrimenti perderanno le gare. Agli enti locali spetterà definire le condizioni e gli standard dei servizi e controllare che siano rispettati (altrimenti potranno imporre multe o perfino revocare la concessione).
Quanto al secondo quesito, l’obbligo di tener conto, nella fissazione della tariffa, dell’ ”adeguata remunerazione del capitale investito” non è a favore del profitto dei privati, dato che l’impresa che vince la gara potrebbe essere pubblica; ma è la condizione per potere fare gli investimenti necessari nel settore. Si trovano investitori (o anche finanziamenti dalle banche e da CDP) solo se si remunerano i capitali o i finanziamenti.
I referendari dicono che così si apre la strada alla speculazione e a superprofitti. Ma non saranno i privati a determinare le tariffe ma l’Agenzia pubblica per l’acqua, un organo indipendente. Dunque le tariffe terranno conto dei costi di gestione del servizio, di manutenzione degli impianti, e della remunerazione degli investimenti e dei finanziamenti necessari. Peraltro il meccanismo delle gare consentirà di scegliere le imprese più efficienti, quelle che assicurano i servizi migliori a costi più bassi.
E’ vero che il decreto Ronchi-Fitto prevede anche (discutibili) eccezioni. La possibilità di una gestione pubblica diretta, se i Comuni dimostrano che ci sono valide ragioni per scegliere questa ipotesi (quella che i referendari vorrebbero generalizzare); e la possibilità di lasciare in vita (temporaneamente) le attuali concessioni di gestione in affidamento diretto (attribuite senza gara), in tal caso garantendo che i privati abbiano una partecipazione significativa, in grado (forse) di resistere alle pressioni clientelari e alle esigenze di spartizione che spesso appesantiscono la gestione pubblica. Ma si tratta di eccezioni, limitate o transitorie, rispetto al principio della liberalizzazione e della competizione. Un referendum limitato a queste eccezioni avrebbe meritato il SI di tutti. Non un referendum che abroga la regola virtuosa e salva le eccezioni.
Aggiungo che i sostenitori del referendum non hanno mai dato risposta ad una obiezione: gli effetti di un eventuale successo del SI sulla finanza pubblica. Se vinceranno, si creerà un vuoto normativo che andrà colmato. Secondo i promotori del referendum bisognerebbe tornare alla gestione pubblica di questi servizi: sarà difficile contrastare questa richiesta legittimata dal voto popolare. Ora, gestione pubblica in house nell’acqua, nei rifiuti e nel trasporto locale (e in altri settori minori), significa che gli investimenti necessari (120/140 miliardi stimati nei prossimi 10 anni, nei tre settori) dovrebbero essere finanziati dagli enti locali, sui loro bilanci. Ma gli enti locali sono alla canna del gas, e il Patto di stabilità europea vieta loro di prendere altri soldi a prestito, anzi impone di ridurre il debito pubblico di 3 punti all’anno (sul PIL). Dunque: o non si faranno più gli investimenti e le città rischiano di restare senza acqua e sommerse dai rifiuti; o si toglieranno risorse essenziali ad altri servizi (scuola, assistenza agli anziani, asili nido, manutenzione delle strade, ecc.) che non si possono affidare in concessione a imprese pubbliche o private; o si aumenteranno vertiginosamente le imposte locali, per pagare in anno per anno gli investimenti dell’anno. Non so quale delle tre ipotesi è peggiore: sono tutte disastrose.
Aggiungo che nel caso dell’acqua, che è un bene scarso, la fiscalizzazione anche parziale dei costi del servizio e degli investimenti incentiverebbe gli sprechi; si pagherebbe infatti in proporzione al reddito dichiarato, non al consumo; e un pensionato o un lavoratore dipendente a reddito fisso pagherebbero anche l’acqua della piscina dell’immobiliarista o del finanziere evasore!
Tutto ciò è ignorato dalla stragrande maggioranza degli elettori: a questa colossale disinformazione hanno contribuito i promotori del referendum, che sanno di poter vincere e convincere solo manipolando la realtà dei fatti e delle norme; e molti esponenti dei partiti, che nel referendum vedono solo uno strumento di lotta politica. Tanto che contro la liberalizzazione si è schierato il PD, che delle liberalizzazioni (anche nel settore delle public utilities) aveva fatto la sua bandiera (da Napolitano a Bersani) nei precedenti 15 anni.
Per queste ragioni credo si debba fare di tutto per far fallire il referendum. In condizioni normali voterei NO, convinto che le forti ragioni della liberalizzazione dei servizi possano prevalere. In queste condizioni, con sofferenza, sceglierò di non ritirare le due schede “sull’acqua”: anche perché l’ acqua non è acqua pura ma, in questo caso, un miscuglio maleodorante di acqua, rifiuti, metropolitane e autobus, manutenzione dei giardini e pulizia delle scuole. E quasi nessuno lo sa!
*Costituzionalista