Sono passati quasi vent’anni da quel fatidico 24 luglio 1991 quando un’India sull’orlo del default decise di aprire gradatamente la propria economia al libero mercato, avviando un processo che – tra accelerazioni e frenate, ma senza veri ripensamenti – l’ha portata a diventare la terza potenza economica dell’Asia. Oggi questo paese da oltre 1,2 miliardi di persone gioca un ruolo di primo piano nelle strategie di internazionalizzazione di un numero crescente di imprese, anche italiane.
Ad attirare gli investitori sono un quadro demografico senza eguali, composto da un 31% di cittadini under 14 e tassi di crescita che neppure la grande crisi economica del 2008 è riuscita a far scendere sotto il 4,9% (per poi risalire l’anno successivo rapidamente verso l’8,5%, giustificando così la stima della World Bank di un +8,7% medio fino al 2013). Il tutto sommato ad alcuni fattori attraenti per le imprese come la diffusione della lingua inglese, un sistema giuridico ereditato dall’impero britannico, un buon grado di stabilità politica e una disponibilità di manodopera locale a basso costo forse numericamente non all’altezza delle sue dimensioni e ambizioni, ma comunque con pochi eguali tra i paesi in via di sviluppo. Ma prima di gettarsi in un’avventura estremamente promettente (va detto, non del tutto priva di rischi come insegnano le traumatiche esperienze sia di alcuni marchi dell’abbigliamento che di un colosso dell’automotive come Renault) è indispensabile sapere cosa può essere fatto e cosa no, con quali cautele occorre muoversi e quali possono essere i tempi tecnici per poter avviare un’attività. Perché l’India moderna, nonostante gli enormi cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni, è diventata sì un paese per molti. Ma non per tutti.
“La prima cosa che consiglio di fare a un imprenditore interessato a questo mercato è di verificare in quale categoria ricade ciò che intende produrre e commercializzare in India”, spiega Jacopo Gasperi, of counsel dello studio legale Macchi di Cellere Gangemi e of counsel di Titus&Co (New Delhi). “La politica sul Foreign direct investment (Fdi) del governo indiano individua infatti tre grandi categorie: i settori chiusi, dove non sono ammessi investimenti diretti dall’estero; i settori per i quali occorre seguire la Government approval route, ovvero chiedere il via libera di un organo di governo (in genere il Foreign investment promotion board, o Fipb); i settori in cui vige la Automatic approval route, ossia quelli in cui non servono autorizzazioni di alcun tipo, né da parte del governo, né da parte della Reserve Bank of India (Rbi)”, ovvero la Banca centrale. Alla prima categoria, quella per la quale l’India resta off limits, appartengono i settori delle scommesse e del gioco d’azzardo, le lotterie, la generazione di energia atomica (ma non lo costruzione dei reattori per la quale gareggiano russi, francesi e americani), il commercio al dettaglio multibrand, l’agricoltura (anche se con alcune esclusioni), una serie di attività finanziarie (alcune delle quali tipicamente indiane come i chit funds) e immobiliari (anche se con alcune eccezioni). Alla seconda, quella per la quale è necessario chiedere un’autorizzazione che viene concessa caso per caso, appartengono una serie di attività ben definite come per esempio la manifattura di sigari e sigarette e di apparecchi elettronici per i settori aerospaziale e della difesa.
Ma anche la produzione di articoli che la normativa indiana riserva al mondo delle cosiddette small scale industries nonché gli ulteriori investimenti di chi, in un determinato settore, ha già una joint venture con un partner indiano. Alla terza appartengono tutti gli ambiti industriali che non sono compresi tra i primi due, anche se il fatto di non avere bisogno di un via libera governativo non necessariamente implica la più completa libertà di investimento. Esistono infatti settori per i quali pur valendo la Automatic approval route, rimane comunque un tetto alle partecipazioni azionarie estere. È il caso dei settori bancario e assicurativo. Sul piano più strettamente formale permangono, anche per quegli ambiti in cui la libertà di investimento è più ampia, alcuni obblighi tecnici, come quello di notificare l’accredito in India dei fondi in ingresso presso gli uffici locali della Banca centrale. Di tutte le questioni che riguardano i limiti imposti al Foreign direct investment la più dibattuta degli ultimi anni è sicuramente quella relativa al settore del retail multimarca. Soddisfacendo certi criteri e con alcune limitazioni, oggi è infatti possibile entrare sul mercato indiano con una catena di negozi monomarca (come hanno fatto Gucci e Adidas per esempio).
Ma non è possibile per un operatore straniero possedere alcuna quota in una società che venda al dettaglio articoli realizzati da più di un produttore, come tipicamente accade nei supermercati. Che questa limitazione sia presto o tardi destinata a venire rimossa è pressoché certo. Non a caso negli ultimi anni i player stranieri come Walmart sono entrati in società con dei partner indiani nel settore cash and carry, una mossa vista da molti come il preludio a un ingresso anche nel settore B2C. Ma prevedere quando si arriverà a questa riforme è difficile. Soprattutto perché l’ingresso dei supermercati potrebbe incidere sull’universo dei cosiddetti mom & pop stores o kirana shops (piccoli e caotici negozi che concentrano pericolanti assortimenti da supermercato in metrature da boutique) andando a infastidire, due costituency elettorali numericamente non marginali e politicamente “rumorose”. Quella, ovviamente, dei negozianti e quella dei grossisti che in questi anni hanno saputo volgere a proprio vantaggio le inefficienze e opacità del settore distributivo, specialmente in ambito agricolo. Un possibile fattore che potrebbe giocare a favore dell’apertura è la sconfitta subita dal Communist Party of India (Marxist) nelle recenti elezioni amministrative, un ridimensionamento che si rifletterà presto negli equilibri politici della Rajya Sabha, la camera alta del parlamento. Anche se, viste le tendenze populiste di diversi partiti politici indiani (alcuni dei quali usciti rafforzati dal voto), non è da escludere che qualcun altro voglia assumersi il ruolo di tenere alla larga lo straniero dal settore della grande distribuzione organizzata. (fine prima parte)
Il fascino discreto dell’India: perché alle imprese indiane conviene investire
Demografia, tassi di crescita e diffusione della lingua inglese ne fanno un Paese ideale dove andare a impiantare delle produzioni – A patto di sapere cosa si può fare e cosa no (e avere un po’ di pazienza) – La prima puntata di un’inchiesta