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Roberto Ottone, la cucina è un divertimento ma impegnativo

Lo Chef della raffinata Baita Pié Tofane a Cortina d’Ampezzo, gioca fra sapori ed estetica in una sfida costante alla cucina d’alta qualità che rispetta il grande patrimonio italiano di tradizione

La mamma Luciana, che faceva la cuoca in un agriturismo sopra le cime del Lago Maggiore, se lo portava con sé quando era piccolo, sul posto di lavoro. E per tenerlo occupato senza disturbare gli altri, gli forniva un paiolo con dentro farina di polenta e dell’acqua, da rimestare, per preparare – gli diceva – un piatto da servire ai clienti. Il giovane Roberto questa cosa la prese subito sul serio: se ne e stava lì, buono buono, impegnato a rimestare, all’esterno dell’agriturismo, inorgoglito dal fatto di avere un ruolo importante, una bella responsabilità per il lavoro della mamma. E poi ci si sono messi i fumi, i profumi, i sapori caserecci che uscivano dalle cucine e gli mettevano appetito. Il ricordo di quei giorni e di quei sentori, gli sono rimasti dentro anche da adolescente mai immaginando che quel piccolo “lavoro” che lui prese come un hobby divertente avrebbe potuto, un giorno, segnare la sua vita. Perché Roberto  Ottone, oggi a 43 anni affermato Chef  del raffinato Ristorante Baita Piè Tofana a Cortina d’Ampezzo, immerso nell’immenso patrimonio naturalistico delle Tofane, poco distante dal  Rifugio Duca d’Aosta e dal Rifugio Pomedes, ha mantenuto forte, nella sua esperienza professionale, l’impronta delle emozioni giovanili: per lui la cucina è un divertimento, è scoperta, è stupore ma soprattutto impegno.

A dire il vero da giovane, a Verbania, sognava, come tutti i ragazzi, un futuro che assecondasse le sue passini giovanili, sempre con una propensione per l’arte. Ora si vedeva pittore, forse influenzato dalle tele dei grandi artisti del Gran Tour che si fermavano a ritrarre vedute naturaliste del Lago e delle sue colline, ora si vedeva musicista attirato dal fascino degli artisti che animavano le “Settimane musicali di Stresa” conosciute in tutto il mondo.

Ma sulla pittura e la musica alla fine fu la cucina a prendere il sopravvento – quel paiolo fuori dell’agriturismo aveva lasciato indelebilmente il segno – una scelta tuttavia che a ben vedere non suona, è il caso di dire, poi troppo in contrasto: armonia, colori, emozione, creazione, interpretazione, estetica, sono, in fin dei conti, un comune denominatore alle tre professioni.

E fu così che, seguendo il richiamo di quell’hobby giovanile, all’età di 12 anni il giovane Roberto imbocca, dopo le scuole dell’obbligo, la strada dell’Istituto di Formazione Maggia di Stresa a quei tempi considerata uno delle scuole alberghiere importanti della penisola. Tanto per capirsi è qui che si sono formati e sono cresciuti il grande Alfonso Iaccarino, tre stelle Michelin, con il suo Don Alfonso a Sant’Agata sui due Golfi, grande maestro riconosciuto della cucina mediterranea, Paolo Gatta, stella Michelin passato per l’Antica Osteria del Ponte da Santin, poi da Cracco e infine insediatosi al Pascia, di Invorio (NO), e Vincenzo Manicone, per anni collaboratore di Antonino Cannavacciuolo presso il ” Villa Crespi “, oggi chef presso il Bistrot Cannavacciuolo di Novara recentemente stellato.

A radicarlo in questa scelta fu il primo piatto cucinato da solo. Se lo ricorda come fosse oggi. Mamma Luciana gli aveva dato tutte le dritte per mettersi alla prova con un risotto al barolo, piatto di tradizione che era il suo piatto forte, al punto che la consideravano la regina dei risotti. Il giovane Roberto non si fece prendere da soggezione, si mise all’opera e trionfò di soddisfazione e orgoglio quando mamma Luciana si complimentò con lui per come era riuscito. Inutile dire che a quel punto capi che era giunto il momento di prendere una decisione definitiva.

E ai primi passi in cucina effettuati sotto l’occhio vigile della mamma, una volta completato l’istituto alberghiero, seguirono quelli indubbiamente molto più impegnativi e gravosi con grandi chef, di quelli che al solo nominarli ti danno i brividi. Ma Roberto Orttone come abbiamo visto è come un guerriero giapponese in cucina, va avanti come un Tir.

Eccolo dunque approdare alla corte di Philippe Leveillé, l’intransigente chef bistellato del Miramonti l’Altro di Concesio, di Patrick Massera, già chef di Enoteca Pinchiorrà e uno dei tre “enfant prodige” di Gualtiero Marchesi assieme a Andrea Berton e Paolo Lopriore. Passare quindi per la cucina di Enrico Derflingher, nativo di Lecco – il cognome non inganni – chef di caratura mondiale, che a soli 27 anni divenne chef personale della Casa Reale Inglese e nel 1991 fu chiamato come chef alla Casa Bianca prima di approdare all’ Eden di Roma dove Ottone lo raggiunse. E non è finita, perché Roberto Ottone, nella sua insaziabile voglia di imparare, sperimentare, superare i confini dell’ordinario, toccare tutte le gamme possibili in cucina, vuole conoscere da vicino anche la scuola del grande chef filosofo e psicologo Pietro Leemann del Joia di Milano, che si è votato completamente alla cucina vegetariana. Al Joia Ottone può così addentrarsi nelle cultura dei Veda, di cui Leeman, primo chef vegetariano a ricevere una stella Michelin in Europa, è diventato seguace, una cucina composta da elementi di forma e di gusto che rappresentano la natura intesa come punto di riferimento e di partenza per ogni ricerca di salute e piacere.  E soprattutto come stimolo ad una maggiore riflessione sugli aspetti salutari, etici e morali legati alla scelta del cibo.

“Sono questi i maggiori chef con cui ho avuto modo di lavorare – ricorda oggi Ottone – che mi hanno fatto amare questo lavoro, che per me è una passione, ma anche tanti altri chef con i quali magari collabori per un solo giorno o per un solo evento tilasciano grandi ricordi, emozioni… da Heinz Beck conosciuto ai tempi in cui facevo lo chef per la Cantina Berlucchi in Franciacorta a Gennarino Esposito,  da Pino Cuttaia, a Giancarlo Perbellini. Credo, infatti, che ogni chef debba avere il proprio stile e comunque l’eleganza di Beck è unica”. 

L’innovazione per Ottone è un requisito fondamentale nella cucina di uno chef, che è chiamato a cimentarsi con una difficile equazione, quella di abbinare nuove tecniche interpretative ai piatti di tradizione nel rispetto di un passato che ha reso grande la cucina italiana nel mondo ma nel contempo affidando ad una creatività contemporanea il compito di farsi interprete di quel passato, fatto di territorio e di stagionalità, per proiettarlo avanti nel futuro. Una frase che ama ripetere è: “Come si può resistere al richiamo di una amatriciana o di uno gnocco? Il compito di uno Chef è semplicemente quello di conferirgli eleganza, di renderlo affascinante, elevandone al massimo le sue qualità intrinseche.

Profondamente convinto della importanza di raggiungere un equilibrio come quadratura del cerchio gastronomico Roberto Ottone tiene lontana dai suoi piatti qualsiasi forma di cucina estrema o forzata. Se si deve parlare di un suo modello interpretativo allora il pensiero e il discorso vanno alle cucine asiatiche o quelle dei paesi nordici, che nel loro minimalismo esprimono ottimamente il suo concetto di cucina fra passato e futuro.

Certo la carriera di uno chef non è quella che appare nelle fiction TV o nelle trasmissioni a tema, tutto sorrisi e pacche sulle spalle. No, non è tutto oro quel che luce.

Ottone l’ha imparato subito a proprie spese: “ogni chef ha i suoi momenti di difficoltà, ma se la passione persiste, ogni difficoltà diventa un trampolino di lancio per esser più forti e determinati…”.  E di forza in certi momenti bisogna averne tanta: “ Ricordo all’età di 19 un episodio che mi fece star male a lungo. Per un errore commesso uno chef al pomeriggio mi punì, umiliandomi, faccendoni pulire la cucina e le pentole. Lui, famosissimo, per me era un mito, era li in cucina per me… l’umiliazione è stata tanta che me la ricordo ancora. Avrei voluto cambiare identità per la vergogna.  Ma ho resistito e persistito fino ad oggi ed eccomi qui sempre con la giacca bianca da chef”.

La lezione ha ottenuto il suo effetto perché Ottone da quella esperienza ha tratto un rigore che in cucina lo porta a interrogarsi con severità e senza scuse su tutto il processo culinario dalla scelta delle materie prime alla tecnica di lavorazione all’estetica dell’impiattamento rimembranza delle sue passioni artistiche giovanili.

Senza quel rigore che si porta dentro fin da piccolo sarebbe stato arduo capitanare la brigata di cucina del Regina Palace di Stresa, un Grand Hotel con oltre 250 camere, 20 cuochi da organizzare su più turni di lavoro, eventi, ecc. Un’esperienza fondamentale per l’organizzazione del lavoro.

Oggi sui monti delle Tofane, lui che è nato a Verbania, uomo di lago, si diverte a portare in tavola sapori del mare, come Spaghettoro Verrigni, mozzarella di bufala Dop, limone di Costiera, mandorle e ricci di mare; Riso riserva San Massimo, acqua di pomodoro, astice, verdure in osmosi e olio extravergine d’oliva; o Rombo croccante, patate, funghi e zuppa di scamorza.

Piatti di cultura mediterranea che si affiancano a quelli più consoni alla sua origine nordica come Fondente di maiale “Mora Romagnola“, sedano di Verona, liquirizia, arancio e insalatina di germogli o “Verso Milano Cortina“ costoletta di vitello, patate con la buccia e piccole verdurine ripassate in padella.

Le materie prime, scelte in un confronto costante con piccoli produttori vengono  ridipinte nel piatto per creare un divertente gioco multisensoriale che rende il momento a tavola un’esperienza culinaria come una sfida anche estetica alla ricerca di una cucina di alta qualità.

Un “gioco” molto apprezzato  dai grandi dello spettacolo, del cinema e dello sport: ai suoi tavoli sono seduti, infatti, nel tempo Cindy Crawford e Andrea Bocelli, Morgan Freeman e Miguel Mourinho, Irina  Shayk e Sarah Jessica Parker, Placido Domingo e molti altri……..

“Ma ciò che mi gratifica di più e la felicita del cliente quando si alza dal tavolo e ti ringrazia dopo aver assaporato i tuoi piatti. Questo e ciò che mi rende più orgoglioso di questo mestiere… Perché la cucina è e deve essere un piacere, beninteso accompagnato da passione, umiltà, spirito di sacrificio e tenacia, componenti fondamentali che non devono mai mancare ad uno chef di cucina”

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