È nata la nuova poesia più corta del mondo. Consiste di tre caratteri: un apostrofo in mezzo a due spazi bianchi. Si intitola un apostrofo tra due silenzi, titolo assai più lungo e necessariamente tale per aiutare a dare significato a tre segni grafici, due dei quali nemmeno visibili. L’autore è Lorenzo Mullon, triestino di nascita (classe 1961), veneziano d’adozione (dopo un lungo periodo milanese), poeta in (non di) strada. Un in strada che evoca sia il luogo dove si è sia il movimento, il cammino, la marcia verso il cambiamento continuo.
Prima di raccontare la nascita di questa micro-opera letteraria, chi sia Mullon e quale sia la sua poetica, rispondiamo a tre domande propedeutiche: quanto breve può essere una poesia? La brevità è una qualità del componimento? E quale senso artistico ha porsi queste domande?
Rispondiamo in ordine inverso, ben consci di camminare su ghiaccio sottile. Artisticamente non ha alcun senso ragionare della lunghezza di un testo poetico, sia perché non è in alcun modo determinante per il suo valore o la sua riuscita sia perché è parte della libertà di scelta dell’autore. Il medesimo poeta può prediligere una lunghezza minore o maggiore a seconda di quanto vuole comunicare, e del modo che ritiene più opportuno usare. Emily Dickinson ha scritto poesie brevi e altre più lunghe. Dante ha usato i corti sonetti per i testi amorosi giovanili, e ha composto la Divina Comedia che consta di 14.233 versi, 96mila parole e 400mila lettere, senza contare gli spazi.
D’altra parte, in pittura abbiamo il capolavoro quasi miniaturistico San Girolamo nello studio di Antonello da Messina (<no humani pictor>, lo definì il figlio Jacobello) e i tratti ampi del Guernica di Picasso e la gigantesca e scenografica Nozze di Cana di Paolo Veronese, e nessuno può valutarle in base alle loro dimensioni, solo manifestare la preferenza per l’una o l’altra.
Il significato nascosto dietro la brevità
La brevità può essere, invece, una qualità del componimento poetico, nel duplice senso di caratterizzarlo e di dargli spessore folgorante. Come il No. di Franco Fortini, di stampo polemico e che perde valore se estrapolato dal contrasto con Carlo Bo. Soprattutto il M’illumino di immenso di Giuseppe Ungaretti, che gareggia con Si sta come/d’autunno/sugli alberi/le foglie dello stesso Ungaretti, mentre meno sintetico ma non meno denso è Ognuno sta solo sul cuor della terra/trafitto da un raggio di sole:/ ed è subito sera. di Salvatore Quasimodo (per una sintetica rassegna-classifica delle poesie più brevi si rimanda a Filodiritto).
La brevità è un tratto caratterizzante gli haiku giapponesi e tra i più belli scegliamo La campana del tempio tace,/ma il suono continua/ad uscire dai fiori di Matsuo Basho, Che luna:/il ladro/si ferma per cantare di Yosa Buson e Il tetto si è bruciato:/ora/posso vedere la luna di Mizuta Masahide.
La brevità di una poesia incontra il limite espressivo nel numero minimo di caratteri essenziale a esprimere un concetto nella lingua in cui è scritta. In effetti, finora la poesia più breve internazionalmente riconosciuta è quella di Aram Saroyan, scritta nel 1965 e composta da tre caratteri visibili: una emme con quattro stanghette racchiusa tra caporali, tipo <im> e infatti si legge, secondo alcuni interpreti, come I am, grido disperato dell’io, come l’Herr del coro iniziale della Passione secondo Giovanni di Johan Sebastian Bach. Il punto è che la emme quadrupede non esiste nell’alfabeto ed è quindi pura invenzione, perfino pittorica, come una poesia visiva, o, in questo caso, in-visiva.
Mullon e la poesia come segno invisibile
L’opera di Mullon è parente stretta di quella di Saroyan: è fatta di segno, più che di parola, ed è ugualmente in-visibile, perché qualunque forma di scrittura (manuale, dattilografica, digitale) non consente di tracciare i due spazi che racchiudono l’apostrofo. Quindi non possono essere nemmeno letti, ma possono essere solo descritti: ci sono anche se non si vedono.

Quasi un atto di fede del lettore nell’autore, il quale narra che: <Mi è venuta di getto, osservando una nuvola nell’azzurro del cielo. Si poteva usare una virgola, un punto interrogativo, un semplice punto, per separare due spazi. Ma per fortuna, sullo schermo della mente è apparso un apostrofo, che nella grafia ha una bellissima curva tra il pieno e il vuoto. Potrebbe significare tante cose, anche noi siamo un apostrofo tra il silenzio prima della nascita e il silenzio successivo alla nostra dipartita, ma ogni giorno è un apostrofo tra due silenzi, ogni istante>.
Quindi, un’immagine fotografica ha dato l’ispirazione a Mullon. D’altronde, Lorenzo trascorre gran parte delle giornate per le calli e i campi di Venezia, a incontrare persone, a parlare con loro e, in cambio di un’offerta, dando i libretti da lui realizzati manualmente (nella copertina, nella composizione, nella rilegatura), che contengono mini-raccolte delle sue poesie, tutte comunque brevi (anche se non altrettanto di quella qui descritta). Soprattutto sono piene di cibo per la mente, sostanza per immaginare e sognare, come avrebbe detto Shakespeare: “Anche noi siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni; e la nostra breve vita è circondata da un sonno”.
Ps: si può discutere se gli spazi siano caratteri del testo, al pari di lettere, numeri e segni di interpunzione. Io sono convinto di sì e non solo per una questione funzionale (consentire la decifrazione-lettura della sequenza di segni), oltre che fisica (ingombra, pure le memorie digitali, al pari dei grafismi), ma anche perché lo spazio bianco assume un valore particolare nei testi poetici in quanto isola, dando maggior risalto a quel che l’occhio vede, e quindi colpendo la mente.