La tentazione di Donald Trump di imprimere al governo degli Stati Uniti una svolta in senso autoritario non riguarda solo il complesso delle sue iniziative. Comporta anche il suo tentativo di alterare l’equilibrio dei poteri a vantaggio della figura del presidente, creando un precedente che potrebbe condizionare le istituzioni federali ben oltre il termine della seconda amministrazione del tycoon.
Uno di questi aspetti, probabilmente il principale, è la questione dell’esecutivo unitario. Appellandosi a questa teoria quando mai controversa dal punto di vista giuridico, Trump vorrebbe assoggettare a sé l’intera amministrazione federale e svincolarsi dai controlli costituzionali del Congresso e delle agenzie indipendenti, con la pretestuosa giustificazione di dover sradicare l’opposizione del Deep State, l’apparato burocratico.
Secondo la narrativa di The Donald, i funzionari federali nominati dai suoi predecessori o entrati nei quadri del pubblico impiego per concorso tramerebbero per intralciare l’attuazione del programma trumpiano, impedendo al tycoon di realizzare quegli obiettivi per i quali sarebbe stato rieletto a furor di popolo alla Casa Bianca per un secondo mandato lo scorso novembre.
Una premessa cinematografica
Chi ha visto Vice – L’uomo nell’ombra (2018), il biopic di Adam McKay su Dick Cheney, il vicepresidente di George W. Bush, magistralmente interpretato da Christian Bale, ricorderà una scena ambientata l’11 settembre 2001.
Dopo che gli Stati Uniti sono stati colpiti dagli attentati di al-Qaeda, Cheney/Bale è il membro del governo meno preoccupato nel bunker sotto la Casa Bianca dove sono asserragliati titolari di dicasteri e alti funzionari federali. Per il vicepresidente, l’emergenza nazionale non è solo una minaccia alla sicurezza americana, ma anche e soprattutto un’opportunità: l’attacco terroristico rappresenta l’occasione per mettere in pratica la teoria dell’esecutivo unitario.
Lo spettatore apprende di cosa si tratti in un’altra scena, collocata in un momento imprecisato alla metà degli anni Settanta. Il giovane Cheney, al tempo vicecapo di gabinetto del presidente Gerald Ford, si incontra con un legale del dipartimento della Giustizia destinato in futuro a divenire un giudice della Corte Suprema, Antonin Scalia.
Cheney vorrebbe un consiglio su come rafforzare l’autorità del presidente, in un momento in cui è ai minimi storici a causa dello scandalo Watergate che ha travolto il predecessore di Ford alla Casa Bianca, Richard M. Nixon, costringendolo alle dimissioni. La soluzione fornita da Scalia è la dottrina dell’esecutivo unitario: nell’esercizio delle sue funzioni il presidente gode di un’autorità assoluta e qualsiasi cosa faccia è legale proprio perché a compierla è il capo dell’esecutivo. Nella realtà il colloquio tra Scalia e Cheney non è mai avvenuto e di teoria dell’esecutivo unitario si è iniziato a parlare solo alcuni anni più tardi, durante la presidenza di Ronald Reagan.
Nondimeno, la pellicola di McKay ha fatto conoscere al grande pubblico questa interpretazione della Costituzione che, scordata durante le amministrazioni di Barack Obama e Joe Biden, è tornata di attualità con la presidenza di Trump, non tanto con la prima quanto con la seconda.
La presidenza di George W. Bush e l’esecutivo unitario
Nel presentare Cheney come assertore di un’interpretazione della teoria dell’esecutivo unitario nei termini di una sorta di dogma laico dell’infallibilità legale del presidente degli Stati Uniti, McKay opera un’altra forzatura. George W. Bush si avvalse di questo modello essenzialmente solo in due ambiti ben delimitati: il ricorso all’executive privilege, cioè la facoltà del presidente di non rivelare informazioni (una specie di invocazione del segreto di Stato), e la creazione di uffici con funzioni esecutive ma formalmente di natura consultiva che, in quanto tali, non richiedevano che la nomina del titolare fosse soggetta alla conferma del Senato e quindi al controllo di quest’ultimo.
Da un lato, Bush si trincerò dietro i privilegi del presidente per secretare la documentazione riguardante il divieto di regolamentare le emissioni di gas serra dei veicoli imposto allo Stato della California dalla Environmental Protection Agency (l’ente federale preposto alla tutela dell’ambiente), il piano energetico nazionale elaborato da una task force guidata da Cheney e il coinvolgimento di quest’ultimo in un’operazione per screditare Joseph Wilson IV, un ex diplomatico che aveva denunciato la manipolazione delle fonti di intelligence per giustificare l’invasione dell’Iraq e l’abbattimento del regime di Saddam Hussein nel 2003.
Dall’alto, Bush mise Don DiIulio a capo del White House Office of Faith-Based and Community Initiative, una struttura incaricata di finanziare programmi di assistenza ai poveri passando attraverso organizzazioni religiose; designò Tom Ridge alla guida dell’Office of Homeland Security, l’organismo che si occupò della sicurezza nazionali dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 in attesa che il Congresso autorizzasse la costituzione di un dipartimento ad hoc; e conferì a Donald E. Power la gestione della ricostruzione delle aree della Louisiana colpite dall’uragano Katrina.
Cosa prevede la Costituzione o le si vuole far affermare
Rispetto all’esagerazione di McKay sulla liceità di qualunque atto dell’inquilino della Casa Bianca, la teoria dell’esecutivo unitario si limita a enunciare che il presidente esercita un’autorità unica e insindacabile sulla branca dell’esecutivo e, quindi, ne ha il controllo assoluto.
Il primo comma della prima sezione del secondo articolo della Costituzione recita: “Del potere esecutivo sarà investito un presidente degli Stati Uniti d’America”. Da tale sintetica affermazione deriverebbe la constatazione che tutti i funzionari dell’amministrazione federale, a qualunque livello operino, sarebbero soggetti alle direttive del presidente e non godrebbero di una propria autonomia.
Questa lettura si avvarrebbe anche di un’altra considerazione. Nei primi anni della loro esistenza gli Stati Uniti non ebbero un presidente. La figura fu creata con la Costituzione federale del 1787 per ovviare alle disfunzioni del precedente patto tra le entità che avevano dato vita agli Stati Uniti, gli Articoli di Confederazione e di Unione Perpetua, rivelatosi inefficiente perché comportava una commistione tra potere legislativo ed esecutivo, ripartendo le funzioni di governo tra comitati composti da membri del Congresso senza prevedere la figura di un capo dello Stato.
Tuttavia, il superamento della frammentazione del potere esecutivo con la sua attribuzione a una sola persona non significava necessariamente conferire al presidente un controllo assoluto sul governo e sull’amministrazione federale. Gran parte dei costituenti era reduce da una guerra combattuta contro la Gran Bretagna, scaturita da quella che era stata ritenuta la degenerazione dispotica dell’autorità del sovrano inglese Giorgio III.
Memori del passato, i redattori della Costituzione del 1787 vollero prevenire un’analoga deriva tirannica dei poteri del presidente e delle sue funzioni esecutive. Si spiega in questo modo, per esempio, il fatto che la nomina dei titolari dei dicasteri e di altri funzionari da parte del presidente sia soggetta all’imprescindibile conferma del Senato per diventare effettiva. In assenza dell’approvazione del Senato i prescelti del presidente non possono entrare in carica, fatta eccezione per le designazioni che avvengono quando il Congresso non è in seduta e i cui beneficiari possono svolgere le loro mansioni pro tempore in attesa della convocazione del ramo alto dell’assemblea legislativa federale.
La questione dei titolari dei dicasteri
Proprio le nomine presidenziali rappresentano uno dei principali banchi di prova della teoria dell’esecutivo unitario. La Costituzione tace sul grado di subordinazione dei funzionari federali al presidente una volta che i primi sono entrati in carica. Il potere di revoca del presidente è, quindi, materia giuridicamente controversa.
Le leggi che nel 1789 crearono i dipartimenti (la versione statunitense dei ministeri) del Tesoro, della Guerra e degli Affari Esteri (in seguito ribattezzato dipartimento di Stato) menzionò la rimozione dei loro titolari da parte del presidente, senza attribuire alcun ruolo al Senato. Tuttavia, accennò alla loro destituzione in maniera del tutto incidentale, a proposito di dove archiviare la documentazione dei segretari qualora fossero stati “sollevati dall’incarico dal presidente degli Stati Uniti”.
Nel 1867 il Congresso cercò di regolamentare la faccenda, ridimensionando il potere del presidente a favore del Senato. Scavalcando il veto dell’allora inquilino della Casa Bianca, Andrew Johnson, i legislatori approvarono il Tenure of Office Act, una legge che vietava al presidente di destituire i titolari dei dicasteri senza il consenso del Senato.
La costituzionalità del provvedimento era quasi intuitiva: se le nomine presidenziali necessitavano della conferma da parte del ramo alto del Congresso, il Senato avrebbe dovuto autorizzare anche le rimozioni. Quando Johnson destituì il segretario del dipartimento della Guerra, Edwin Stanton, senza l’avallo del Senato, la Camera aprì una procedura di impeachment contro il presidente. Johnson alla fine si salvò dalla condanna e dalla perdita della presidenza per un solo voto, grazie all’argomentazione che a nominare Stanton era stato il suo predecessore alla Casa Bianca, Abraham Lincoln, e che, pertanto, non era obbligato a tenere nel governo personalità che non aveva scelto lui ma un altro.
Il Tenure of Office Act venne poi abrogato nel 1887 e l’autonomia del presidente nel destituire i responsabili dei dicasteri non è stata più messa in discussione, sebbene ai titolari caduti in disgrazia o divenuti politicamente incompatibili in genere si chieda elegantemente di rassegnare le dimissioni prima di essere messi poco diplomaticamente alla porta.
Anche in questo campo, però, Trump ha voluto dare prova di godere di un potere incontrastato già durante il primo mandato. Quando il 20 dicembre 2018 James Maddis annunciò che avrebbe lasciato il posto di segretario della Difesa il successivo 28 febbraio per dissensi con la decisione del tycoon di ritirare le forze speciali che operavano in Siria, per umiliarlo pubblicamente The Donald anticipò il termine del suo incarico, spostandolo al 31 dicembre 2018 e rendendo nota la decisione con un semplice post sull’allora Twitter (oggi X).
Il problema delle agenzie federali indipendenti
Trump ritiene che il potere di revoca dei funzionari federali a insindacabile giudizio del presidente valga per chiunque detenga un incarico per nomina presidenziale e si applichi, quindi, perfino al caso dei componenti delle agenzie di controllo come la Federal Trade Commission, che sovrintende all’applicazione della normativa antitrust e alla tutela dei consumatori, o la Federal Communications Commission, che monitora il sistema delle telecomunicazioni. Queste agenzie, però, per definizione dovrebbero essere autonome e indipendenti dal governo al fine di esercitare i loro compiti istituzionali che potenzialmente includono anche il vaglio dell’operato della Casa Bianca.
I sostenitori dell’esecutivo unitario citano la sentenza della Corte Suprema sul caso Myers v. United States del 1926: i giudici conclusero che, sebbene le nomine dei direttori degli uffici postali richiedessero la conferma del Senato, il presidente Woodrow Wilson aveva compiuto un atto legittimo nel licenziare quello di Portland, Frank S. Myers, nel 1920 senza consultare il ramo alto del Congresso: subordinare la revoca dell’incarico all’assenso del Senato avrebbe violato la separazione dei poteri tra esecutivo e legislativo.
Il direttore di un ufficio postale non aveva certo un ruolo delicato come quello del direttore o di un membro di un’agenzia federale indipendente. Lo si constatò nel 1933, quando il presidente democratico Franklin D. Roosevelt destituì William Humphrey dalla Federal Trade Commission, alla quale lo aveva nominato il repubblicano Calvin Coolidge, in quanto valutò che il suo atteggiamento non fosse in sintonia con la politica del New Deal.
In questa circostanza la Corte Suprema convenne che la decisione era incostituzionale. Il verdetto non ebbe conseguenze dirette su Humphrey, che nel frattempo era morto, ma la sua vicenda rappresentò un precedente fino a quando la portata della pronuncia non venne ridimensionata da una sentenza del 2020.
Nel caso Seila Law LCC v. Consumer Financial Production Bureau, i giudici stabilirono che era illegittimo limitare il potere del presidente di rimuovere il direttore e i componenti di un’agenzia indipendente alla sola “giusta causa” e vietarne dunque la destituzione per ragioni politiche, salvo qualora la struttura dell’agenzia in questione avesse caratteristiche analoghe alla Federal Trade Commission.
Nella Corte Suprema che si espresse nel 2020 non sedeva ancora il terzo giudice nominato da Trump, Amy Comey Barrett. Secondo alcuni autorevoli giuristi come Cass R. Sunstein, che è intervenuto in proposito sul “New York Times” nei giorni scorsi, è probabile che ora che la maggioranza trumpiana in seno alla Corte Suprema si è rafforzata con l’ingresso di Barrett, verrà rimosso anche l’ultimo vincolo indicato dal verdetto del 2020, quello delle agenzie simili alla Federal Trade Commission. Se questa ipotesi si concretizzasse, il controllato otterrebbe il pieno controllo sui suoi controllori.
Nel frattempo, anche in questo campo, già nel primo mandato, Trump ha dato una dimostrazione tangibile della sua pretesa di godere di un’autorità assoluta come presidente in virtù dell’esecutivo unitario. Nel 2017 prima ingiunse al direttore dell’FBI, James Comey, di sospendere le indagini sulle connessioni tra l’entourage del tycoon e gli autori delle ingerenze di Mosca nella campagna elettorale del 2016; poi sollevò Comey dall’incarico.
Non meraviglia, quindi, che i responsabili delle agenzie federali si stiano affrettando ad allinearsi sulle posizioni di Trump. Per esempio, mercoledì scorso, il direttore dell’Environmental Protection Agency ha annunciato la revoca di numerosi provvedimenti per contenere il cambiamento climatico, un fenomeno notoriamente devastante di cui il tycoon invece nega non solo la gravità ma addirittura l’esistenza.
Il caso degli impiegati federali vincitori di concorsi pubblici
Trump si è avvalso della teoria dell’esecutivo unitario per rivendicare il diritto di destituire qualsiasi dipendente federale, anche chi è stato assunto con un concorso pubblico e non svolge un incarico assegnato in seguito a una nomina politica.
La sua posizione è stata sostenuta dal Project 2025, preparato già nel 2023 dal think tank conservatore Heritage Foundation in previsione della ricandidatura di The Donald alla Casa Bianca nel 2024. Secondo questo rapporto, che ha tra i suoi principali redattori Russell Vought, collocato da Trump a dirigere Office of Management and Budget del governo, è necessario garantire al presidente la fedeltà incondizionata dell’apparato burocratico federale e impedire a qualche funzionario di boicottarne la politica.
Si tratta di una vecchissima argomentazione, risalente addirittura all’amministrazione di Andrew Jackson, in carica dal 1829 al 1837, non a caso il presidente più amato da Trump. Però, non siamo più nella prima metà dell’Ottocento. A partire dal varo del Pendleton Civil Service Act, promulgato nel 1883, un numero crescente di posti di lavoro nell’amministrazione federale viene assegnato attraverso valutazioni comparative tra i candidati e la loro attribuzione è conseguentemente sottratta alle scelte del presidente in modo da evitare che l’accesso al pubblico impiego possa alimentare il voto di scambio.
Per ragioni analoghe, lo Hatch Act del 1939 vieta ai dipendenti del governo federale – con l’ovvia eccezione del presidente e del vicepresidente – di svolgere attività di partito anche al di fuori dell’orario di lavoro e, di conseguenza, impedisce il licenziamento degli impiegati federali per motivi politici.
Il mese scorso, nella sua veste di responsabile del Department of Government Efficency (DOGE), Elon Musk si è presentato a un raduno di conservatori brandendo una sega elettrica, per simboleggiare l’intenzione di tagliare i rami secchi dell’amministrazione federale, cioè i dipendenti non allineati sulle posizioni di Trump.
Eppure, almeno per il momento, la scure si è potuta abbattere solo su circa 20.000 impiegati assunti con contratti a tempo determinato che non rientrano nell’organico di ruolo tutelato dalla legislazione ancora vigente contro i licenziamenti che non siano per “giusta causa”. Per ottemperare a questa clausola, Musk si è inventato un questionario da sottoporre ai dipendenti federali per costringerli a riferire che cosa avessero fatto di utile sul posto di lavoro, con l’evidente speranza che dalle risposte potessero essere ricavati elementi per giustificare il licenziamento di chi è politicamente sgradito.
Nonostante la minaccia di Musk che la mancata compilazione del questionario entro due giorni sarebbe equivalsa a una lettera di dimissioni, alcuni dipartimenti, come quello della Difesa e quello della Sicurezza Interna, al pari dell’FBI hanno comunicato ai loro dipendenti che erano obbligati a rispondere all’iniziativa del DOGE e hanno di fatto sabotato l’escamotage di Musk.
Trump sulle orme di George W. Bush
Trump ha seguito la strada tracciata da George W. Bush nel ricorso all’esecutivo unitario. Da una parte, ha invocato, ancorché invano, l’executive privilege riguardo alle inchieste sulle interferenze russe nelle elezioni del 2016 e sull’assalto dei suoi sostenitori a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.
Dall’altra, la nomina di Musk alla direzione del DOGE, che non è un vero dicastero, è l’esempio paradigmatico dell’attribuzione di funzioni esecutive a figure apparentemente consultive per aggirare le verifiche del potere legislativo sulle loro azioni. Un caso analogo è quello della designazione di Tom Homan quale vicedirettore per l’“attuazione delle operazione di rimozione”, un eufemismo per indicare la deportazione degli immigrati irregolari.
Sulla gestione di questi interventi, Hogan – che per insediarsi non ha avuto bisogno dell’avallo del Senato in quanto svolge ufficialmente un ruolo di mero consulente del presidente – risulta avere molto più potere effettivo del segretario del dipartimento della Sicurezza Interna, l’ex governatrice del South Dakota Kristi Noem, la cui nomina è dovuta invece passare attraverso l’approvazione del ramo alto del Congresso.
Quando la realtà trumpiana supera la finzione cinematografica
Alcuni argini resistano ancora all’incalzare della teoria dell’esecutivo unitario per quanto riguarda la volontà di Trump di esercitare un controllo assoluto sull’organico dell’amministrazione federale. Per esempio, un tribunale ha vietato al dipartimento del Tesoro di condividere informazioni sensibili sui dipendenti federali, come l’entità della loro retribuzione, con il DOGE.
Inoltre, la Corte Suprema ha proibito alla Casa Bianca di congelare i circa due miliardi di dollari di fondi già stanziati per USAID, l’agenzia indipendente che fornisce finanziamenti e assistenza per lo sviluppo agli Stati esteri in difficoltà. Tuttavia, con Trump i fraintendimenti di McKay sull’esecutivo unitario sembrano aver iniziato a passare dal campo delle iperboli hollywoodiane alla realtà politica.
Lo attesta la sentenza emessa dalla Corte Suprema il 1° luglio dello scorso anno in relazione alla causa, poi archiviata, che vedeva Trump imputato per aver fomentato l’insurrezione il 6 gennaio 2021. Il verdetto, infatti, ha stabilito l’immunità penale del presidente in tutte le azioni compiute nell’esercizio delle proprie funzioni. La Corte Suprema ha così finito per dare una veste giuridica formale all’interpretazione dell’esecutivo unitario che nel film di McKay collocava l’inquilino della Casa Bianca letteralmente al di sopra della legge.
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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).