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Trump e il nodo del terzo mandato: se 8 anni alla presidenza Usa gli sembrano pochi

Trump, la sua seconda presidenza Usa e il nodo del terzo mandato: il tycoon potrebbe non accettare il limite costituzionale e cerchi di restare alla Casa Bianca per più di 8 anni, trasformando l’elezione in un “incarico a vita”. L’analisi di Stefano Luconi per goWare e gli scenari possibili

Trump e il nodo del terzo mandato: se 8 anni alla presidenza Usa gli sembrano pochi

Una delle numerose teorie sulle possibili conseguenze di una deriva illiberale e autoritaria dell’amministrazione federale guidata da Donald Trump prevede che il tycoon non accetti il limite costituzionale dei due mandati e cerchi di restare alla Casa Bianca per più di otto anni, trasformando quella che si sta delineando come una presidenza imperiale in una sorta di “presidenza a vita”, considerata anche l’età avanzata di The Donald, che ha ormai compiuto 78 anni e ne avrebbe 82 al momento di una eventuale conferma nel 2028.

L’ipotesi di un terzo mandato di Trump circolava già ai tempi della campagna elettorale del 2016, prima ancora della sua sorprendente vittoria, ed è stata rilanciata con il suo ritorno nello Studio Ovale. A darle credibilità è stata soprattutto un’iniziativa di Andy Ogles, un semisconosciuto membro repubblicano della Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Tennessee. Tre giorni dopo il secondo insediamento di Trump, Ogles ha presentato al Congresso il testo di una risoluzione congiunta per modificare il XXII emendamento della Costituzione in maniera da consentire a chi sia stato eletto per due mandati non consecutivi di svolgerne un terzo.

In teoria, non si tratta di una misura ad personam. Tuttavia, in pratica, si configura come tale. Trump, infatti, è l’unico ad avere i requisiti per potersene avvalere, dal momento che gli ex presidenti con già due mandati alle spalle – Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama – li hanno ricoperti consecutivamente.

Trump, il terzo mandato e il XXII emendamento

Il limite dei due mandati per il presidente è stabilito dal XXII emendamento della Costituzione, proposto nel 1947 e ratificato nel 1951. Lo scopo del provvedimento è quello di evitare la ripetizione di una “presidenza a vita” come avvenne tra il 1933 e il 1945 con il democratico Franklin Delano Roosevelt.

Eletto una prima volta nel 1932 e confermato alla Casa Bianca nel 1936, Roosevelt si avvalse dell’emergenza rappresentata dal secondo conflitto mondiale per ottenere un terzo mandato nel 1940, con la promessa che non avrebbe inviato gli statunitensi a combattere in una “guerra straniera”, e addirittura un quarto nel 1944, con l’argomentazione che non sarebbe stato opportuno cambiare presidente mentre il Paese era ancora impegnato sui campi di battaglia contro la Germania e il Giappone.

Colpito da emorragia cerebrale, Roosevelt morì poi in carica il 12 aprile 1945, meno di tre mesi dopo l’insediamento della sua quarta amministrazione. Il suo successore, il democratico Harry S. Truman, subentratogli ex officio in quanto vicepresidente, fu confermato alla Casa Bianca nelle elezioni del 1948.

Preoccupato già da prima che si giungesse all’instaurazione di una egemonia democratica sulla presidenza che lo avrebbe tagliato fuori dal vertice delle istituzioni federali per lungo tempo, il partito repubblicano, attraverso Earl C. Michener alla Camera e Robert A. Taft al Senato, presentò al Congresso la modifica costituzionale che introdusse il tetto dei due mandati.

Affinché la disposizione non sembrasse un provvedimento ad personam contro Truman, il XXII emendamento non era applicabile al presidente in carica al momento della sua entrata in vigore. Truman, comunque, non si ricandidò nel 1952 e al suo posto venne eletto il repubblicano Dwight D. Eisenhower.

Vincitore anche della corsa per la Casa Bianca nel 1956, sebbene trascorresse più tempo sui campi da golf che a occuparsi degli affari di Stato e avesse la tendenza a delegare ad altri le proprie responsabilità istituzionali, Eisenhower risultò un presidente così popolare che avrebbe potuto ottenere con relativa facilità un terzo mandato nel 1960 se paradossalmente proprio il suo stesso partito non avesse contribuito a impedirglielo con il precedente varo del XXII emendamento.

La modifica costituzionale del 1951 prevede un’unica eccezione al limite dei due mandati, che tuttavia non è applicabile al caso di Trump. Se il vice subentra al presidente dopo che quest’ultimo ha ricoperto la carica per più di due anni, il neoinquilino della Casa Bianca ha diritto a svolgere due mandati pieni dopo il completamento di quello del suo predecessore.

Di questa clausola avrebbe potuto avvalersi il democratico Lyndon B. Johnson. Infatti, entrò alla Casa Bianca il 22 novembre 1963 in seguito all’assassinio di John F. Kennedy, che era alla presidenza già da oltre due anni e mezzo, e conseguì un secondo mandato nel 1964. Però, rinunciò a ricandidarsi nel 1968 a causa della débâcle, non solo militare, a cui gli Stati Uniti stavano andando incontro in Vietnam.

Usa, la tradizione prima della modifica della Costituzione

Prima di Franklin Delano Roosevelt nessun presidente aveva mai ricoperto più di due mandati. Nel 1796, dopo essere stato eletto per due volte alla massima carica federale, nonostante fosse consapevole che non gli sarebbe stato negato un terzo mandato, il primo presidente, George Washington, una figura che ambiva a presentarsi come una personalità super partes, volle ritirarsi a vita privata, disgustato dalle laceranti diatribe politiche che lo avevano coinvolto perché era stato trascinato suo malgrado in una controversia tra i due partiti dell’epoca, il partito federalista e quello repubblicano-democratico.

La sua decisione stabilì un precedente che condizionò a lungo il comportamento dei suoi successori, i quali non se la sentirono di rompere la tradizione iniziata da Washington. Tuttavia, durante tutta la prima metà dell’Ottocento, neppure la regola ancora non scritta del limite dei due mandati sembrò talvolta sufficiente a scongiurare il timore maggiore degli statisti dell’ancora giovane repubblica nordamericana, cioè la paura che la presidenza si trasformasse in una specie di monarchia elettiva.

Così all’inizio il partito federalista e poi quello Whig, che lo rimpiazzò come forza contrapposta ai democratici dal 1833, cercarono invano di cambiare la Costituzione per affermare il principio della non rieleggibilità del presidente già dopo un solo mandato. Per ironia della sorte, gli unici due esponenti Whig che riuscirono a conquistare la Casa Bianca – William H. Harrison nel 1840 e Zachary Taylor nel 1848 – si dimostrarono talmente fedeli al principio del mandato unico da morire in carica prima di avere la tentazione di ricandidarsi: il primo nel 1841, il secondo nel 1850.

Nemmeno chi ascese al vertice dell’amministrazione federale subentrando a un presidente defunto e ne completò il mandato per poi venire confermato nelle elezioni successive si ritenne in diritto di presentarsi per un terzo mandato. Fu il caso dei repubblicani Theodore Roosevelt, che sostituì William McKinley, assassinato nel 1901, e Calvin Coolidge, che successe a Warren G. Harding, morto nel 1922. Roosevelt e Coolidge vennero eletti rispettivamente nel 1904 e nel 1924, ma scelsero di non ricandidarsi nel 1908 e nel 1928.

Usa, i due unici tentativi di rompere la tradizione

La rinuncia di Theodore Roosevelt alla possibilità di concorrere a un terzo mandato non fu definitiva. Nel 1908 utilizzò la propria influenza affinché il partito repubblicano conferisse la nomination per la Casa Bianca a William Howard Taft e si impegnò in modo che vincesse le successive elezioni nella convinzione che fosse il presidente più adatto a continuare i suoi programmi progressisti.

Nel giro di pochi anni, però, Roosevelt cambiò idea. Constatò che Taft stava svolgendo una politica conservatrice e, insoddisfatto dell’amministrazione del suo successore, nel 1912 cercò di strappargli l’investitura repubblicana per la Casa Bianca. Uscito sconfitto dalla convenzione nazionale del partito, che ripropose Taft come suo candidato, Roosevelt fondò una propria formazione, il partito progressista, con il quale sfidò il presidente in carica nelle elezioni del 1912.

Se fosse risultato vincitore, Roosevelt avrebbe ottenuto un terzo mandato, dopo avere portato a termine quello di McKinley e averne conseguito uno proprio nelle elezioni nel 1904. A conquistare la Casa Bianca nel 1912 fu, invece, il democratico Woodrow Wilson, che sfruttò la spaccatura dell’abituale voto repubblicano tra il conservatore Taft e il progressista Roosevelt.

Anche Wilson provò a ignorare la tradizione dei due mandati. Lo fece in seguito alla bocciatura del trattato di Versailles da parte del Senato, che impedì agli Stati Uniti di aderire a quella Società delle Nazioni che lo stesso Wilson aveva ideato alla fine della Grande guerra come fulcro di un sistema di sicurezza collettiva volto a scongiurare un nuovo conflitto militare di dimensioni mondiali.

Per riaprire la questione della partecipazione americana a tale organizzazione internazionale, nel 1920 Wilson prese in considerazione la possibilità di concorrere per un terzo mandato alla Casa Bianca in modo da completare l’opera che aveva iniziato in politica estera per il primo dopoguerra. Sebbene non avesse preso parte alle primarie, Wilson era convinto che la maggioranza dei delegati alla convenzione nazionale del partito democratico non avrebbe potuto esimersi dall’assegnare la nomination al presidente in carica che, tra l’altro, era anche stato insignito del Premio Nobel per la Pace proprio per aver concepito la Società delle Nazioni.

Tuttavia, nell’autunno del 1919, Wilson era stato colpito da un duplice ictus che lo aveva lasciato semicieco e paralizzato nella parte sinistra del corpo. Le sue condizioni di salute erano state nascoste all’opinione pubblica, ma erano note ai dirigenti del partito, che affossarono i suoi piani per una ricandidatura, alla luce della constatazione che non sarebbe stato in grado di svolgere la campagna elettorale.

Il percorso in salita di un terzo mandato trumpiano

Come aveva fatto Wilson nel 1920, anche Trump è un presidente che nel 2028 potrebbe sostenere di avere bisogno di un terzo mandato per completare il proprio programma di governo. Tuttavia, a differenza di Wilson, The Donald ha davanti a sé il problema del XXII emendamento. La soluzione avanzata da Ogles per variarne la formulazione è praticabile solo in teoria.

Le modifiche della Costituzione, infatti, richiedono l’approvazione di entrambi i rami del Congresso con una maggioranza qualificata di due terzi dei voti e ai repubblicani mancano al momento i numeri per ottemperare a questo requisito. Infatti, il partito di Trump avrebbe bisogno di 67 voti al Senato, dove dispone solo di 53 seggi, e di 290 alla Camera, nella quale ha invece 218 membri, che potrebbero salire al massimo a 220 se i repubblicani si aggiudicassero i due seggi al momento vacanti.

Inoltre, come emerso nel dibattito sulle nomine dei componenti dell’amministrazione Trump, serpeggia già un crescente malumore verso The Donald tra i legislatori repubblicani e pare, quindi, poco plausibile che voterebbero tutti compatti per dare al tycoon l’opportunità di correre per un terzo mandato nel 2028. La composizione del Congresso potrebbe ovviamente cambiare a vantaggio della componente trumpiana nelle elezioni del 2026, quando si rinnoverà un terzo del Senato e l’intera Camera.

Tuttavia, in genere, il partito che controlla la Casa Bianca perde seggi, anziché aumentarli, nelle consultazioni di metà mandato. Dall’inizio del Novecento a oggi, soltanto in tre occasioni – nel 1934, nel 1998 e nel 2002 – la formazione politica del presidente non ha subito un arretramento in entrambi i rami del Congresso nelle elezioni di mid term.

Quand’anche la risoluzione di Ogles fosse alla fine approvata dal Senato e dalla Camera, il suo iter non sarebbe ancora concluso. La ragione è che, dopo avere ottenuto il via libera del Congresso, per entrare in vigore gli emendamenti alla Costituzione devono essere ratificati da almeno tre quarti dei cinquanta Stati dell’Unione. La soglia dei trentotto Stati, però, è difficilmente raggiungibile, a prescindere da quale sia la procedura seguita, che non è specificata dalla Costituzione.

Se ipotizziamo una ratifica attraverso convenzioni statali elette in maniera specifica per questo scopo oppure attraverso referendum popolari e prendiamo in considerazione l’esito delle elezioni presidenziali dello scorso anno, Trump ha conquistato la maggioranza del voto popolare in trentadue Stati. All’emendamento di Ogles ne mancherebbero, quindi, ben sei per conseguire il numero minimo per la ratifica.

Se, invece, supponiamo che a esprimersi siano chiamate le assemblee legislative dei singoli Stati, il partito repubblicano ne controlla soltanto ventotto e, pertanto, la soglia di trentotto sarebbe ancor più lontana. Inoltre, l’abrogazione – ancorché parziale – di un emendamento costituzionale, come implicherebbe la risoluzione do Ogles per il XXII emendamento, risulterebbe un atto inusuale.

Infatti, soltanto una delle ventisei modifiche della Costituzione varate dal 1791 a oggi è stata revocata: il proibizionismo in materia di fabbricazione, commercio e consumo di bevande alcoliche, introdotto nel 1919, con il XVIII emendamento, e cancellato nel 1933, con il XXI.

D’altro canto, non esistono escamotage che consentirebbero a Trump di aggirare il XXII emendamento nella sua formulazione attuale. Alcuni politologi non troppo ferrati in materia di Costituzione, come Philip Klinkner, hanno immaginato una sorta di “staffetta” tra Trump e J.D. Vance. Secondo questo schema, Vance si candiderebbe alla Casa Bianca nel 2028 con Trump come proprio vice e, se eletto, si dimetterebbe in modo da permettere a The Donald di subentrargli alla presidenza.

Presentata in tali termini, questa ingegnosa operazione allude implicitamente a una “russificazione” autoritaria della politica statunitense, perché richiama la circostanza in cui Vladimir Putin, non potendosi candidare alla presidenza della Federazione Russa per un terzo mandato consecutivo nel 2008, fece eleggere a questa carica Dmitrij Medvedev, riservandosi il ruolo di primo ministro, per poi tornare al Cremlino quattro anni più tardi al posto dell’allora suo delfino alla scadenza dell’incarico di quest’ultimo.
La manovra paventata da Klinkner e altri commentatori, però, è costituzionalmente impossibile dal momento che il XII emendamento, risalente all’ormai lontanissimo 1804, impedisce di esercitare la funzione di vicepresidente a chi non abbia i requisiti per diventare presidente in caso di necessità. Pertanto, nel 2028 Trump non potrebbe essere eletto vicepresidente per il divieto stabilito da questo emendamento, in quanto gli sarebbe precluso di ricoprire un terzo mandato alla Casa Bianca in ragione del XXII emendamento.

Il terzo mandato come escamotage per tenere in riga i legislatori repubblicani recalcitranti

Sebbene un terzo mandato rientri nell’ambito della fantapolitica, Trump non perde occasione per alludere al fatto che potrebbe restare alla presidenza dopo il 20 gennaio 2029. Per esempio, ha recentemente dichiarato: “Presumo che non correrò di nuovo [per la Casa Bianca], a meno che non si dica ‘è così bravo che dobbiamo escogitare qualcos’altro’”.

Malgrado il suo abituale delirio di onnipotenza (in settimana si è raffigurato con corona ed ermellino regale su tutti i suoi social per annunciare l’intenzione di cancellare il pedaggio per accedere a Manhattan, introdotto dalla governatrice democratica dello Stato di New York Kathy Hochul), è inverosimile che The Donald si faccia davvero soverchie illusioni in proposito.

Appare molto più probabile, come ha sostenuto lo storico Douglas Brinkley, che il tycoon voglia sfruttare la prospettiva di un suo ipotetico terzo mandato per esercitare un pieno controllo sui membri repubblicani del Congresso, soffocare le voci di dissenso nelle loro fila e impedire defezioni da parte di chi si sentisse autorizzato a votare in modo autonomo e indipendente sui provvedimenti sostenuti dal presidente – soprattutto nel Senato, dove sono quattordici i repubblicani che resteranno in carica fino al 2031 – nella convinzione che tra meno di quattro anni la Casa Bianca avrà un altro inquilino.

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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).

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