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Lo sciopero generale del 29 sarà un test della confusa rivolta sociale di Landini ma il disprezzo per le istituzioni è insostenibile

La svolta politica della Cgil di Landini troverà una prima manifestazione nello sciopero generale ma l’arroganza del primo sindacato verso le istituzioni è un male molto serio per la democrazia

Lo sciopero generale del 29 sarà un test della confusa rivolta sociale di Landini ma il disprezzo per le istituzioni è insostenibile

Narrano le cronache del tempo che, quando la notizia della presa della Bastiglia arrivò alla Reggia di Versailles e venne comunicata a Luigi XVI, intento a riparare un orologio, il re chiedesse al dignitario che lo aveva informato, se si trattasse di una rivolta; ma ottenesse la seguente risposta: “No Sire. E’ una rivoluzione”.

La differenza tra rivolta e rivoluzione

Le parole sono sempre una conseguenza dei fatti che descrivono: il concetto di rivolta si riferisce ad eventi spesso improvvisati, acefali, a fiammate di protesta sociale locale e disorganizzata, agevolmente soggette alla repressione da parte del potere costituito che non si sente messo in discussione dai rivoltosi che non dispongono di quella intelligenza strategica necessaria ad avviare una rivoluzione e a condurne a termine gli obiettivi di palingenesi. Ma le rivoluzioni non sono mai un atto di rottura che si consuma una volta per tutte; sono percorsi che richiedono lucidità di direzione politica, ma che spesso si accartocciano su se stessi se non riescono ad andare oltre il colpo di mano con cui hanno inizio. Poi, qualcuno dei suoi collaboratori avrà sicuramente spiegato a Landini – dopo aver letto ciò che scrisse su Il Foglio Dario Di Vico, uno dei pochi giornalisti tuttora convinto che occuparsi dei sindacati italiani non significa perdere tempo – che da un punto di vista squisitamente lessicale non si può non annotare come l’incitamento alla “rivolta sociale” si sia posto al di fuori della tradizione classica della Cgil, attenta nelle formule della protesta a restare sempre dentro il perimetro della democrazia strutturata.

Landini e il linguaggio della “rivolta sociale”

“Rivolta sociale” inequivocabilmente, invece, sa di “protesta slabbrata, di insurrezione“. Non sia mai. Così il padre/padrone della Cgil ha deciso di attraversare il Rubicone di un ordinamento costituzionale ispirato alla classica separazione dei poteri della democrazia rappresentativa. Tuttavia Landini ha ancora qualche riserbo; non si spinge fino ad affermare che sarebbe in grado di trasformare l’aula sorda e grigia del Parlamento in un bivacco per consentire alle Leghe dei pensionati di consumare il pranzo al sacco ricevuto durante il viaggio; si guarda bene dall’ evocare il proposito di aprire la Camera come se fosse una scatola di tonno; evita di denunciare le spese per i presìdi della democrazia come se fossero un inutile spreco (tutte affermazioni più volte ripetute – e non adeguatamente contrastate – negli anni sciagurati per il normale “vivere civile” di questo povero Paese), ma non esita a rappresentare una visione “golpista” dell’organizzazione del potere.

La visione di Landini sulla legittimità del governo

Per Landini il governo e la maggioranza non possono operare legittimamente perché – in conseguenza dell’astensionismo – non esprimono la maggioranza dei titolari del diritto di elettorato attivo, ma solo una minoranza a cui non è consentito di decidere per tutti. Nessuno nega che esista una crisi grave della partecipazione alla fisiologia democratica del Paese, ma l’alternativa proposta da Landini – una democrazia della piazza alternativa a quella delle istituzioni rappresentative – non ha alcun fondamento giuridico, politico ed etico. Soprattutto è smentita dai fatti, perché non esiste più una classe lavoratrice espressione di una volontà generale e in ogni caso essa non si riconoscerebbe nell’alleanza sfasciacarrozze messa in piedi da Maurizio Landini e Pierluigi Bombardieri. E non è solo una questione di numeri relativi ai lavoratori e ai pensionati iscritti (comunque minoranze più o meno contenute) alle due confederazioni barricadiere, rispetto ai totali. Un tempo si diceva che uno sciopero si legittima dalla sua riuscita. Ma come vanno giudicate ripetute e altisonanti azioni di astensione dal lavoro che ormai regolarmente falliscono salvo che per le conseguenze dell’effetto annuncio?

Lo sciopero del 29 novembre: un banco di prova per la “rivolta sociale”

Tra pochi giorni, il 29 novembre, saremo in grado di valutare il livello di rivolta sociale presente in una proclamazione di sciopero riconducibile ad una prassi di ordinaria follia. È arduo interpretare che cosa si cela dietro il vociare scomposto dei leader sindacali, se non l’evidente disprezzo per il proprio interlocutore istituzionale: un disprezzo che si intercetta dal moralismo d’accatto con cui i dirigenti sindacali espongono i loro argomenti. Il governo non viene giudicato per quello che ha fatto o sta facendo ma per quello che è, per la sua natura politica di cui si arriva a disconoscere persino la legittimità. Anzi più il campo viene liberato da argomentazioni di merito, proprie di un confronto sindacati/governo, più la ragione vera dello sciopero e della mobilitazione “creativa” assurge di luce propria, assume il carico palingenetico della rivolta sociale e toglie di mezzo ogni ipotetico equivoco nei confronti di un possibile modus vivendi che conduca ad una tregua e alla possibilità di confrontarsi sui dati oggettivi presenti in una particolare fase storica della vita di una comunità organizzata. È in questi momenti che il ricorso all’arroganza diventa il ridotto della Valtellina di chi non ha più nulla da dire.

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