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Elezioni americane: perché Kamala Harris ha voluto Tim Waltz come vicepresidente. I pro e i contro di una scelta

Il professor Stefano Luconi, grande esperto di storia americana, spiega le controverse ragioni della scelta di Waltz come candidato alla vicepresidenza americana. Il peso del conflitto in Medio Oriente

Elezioni americane: perché Kamala Harris ha voluto Tim Waltz come vicepresidente. I pro e i contro di una scelta

La candidata del Partito democratico alla presidenza, che riceverà l’investitura ufficiale alla Convention del suo partito il 19 agosto a Chicago, ha scelto come candidato vicepresidente Tim Walz, piuttosto sconosciuto al pubblico internazionale. Tim Walz è il governatore del Minnesota, in carica dal 2019 e rieletto nel 2022. Ex insegnante e sergente della Guardia Nazionale, ha rappresentato il Primo Distretto Congressuale del Minnesota alla Camera dei Rappresentanti dal 2007 al 2019. Come governatore, Walz ha affrontato sfide come la pandemia di Covid-19 e le tensioni sociali dopo la morte di George Floyd. Ha promosso politiche di equilibrio tra salute pubblica ed economia, oltre a riforme per la giustizia sociale. Le sue priorità includono istruzione, sanità e cambiamento climatico. È collocabile nell’ambito della sinistra moderata del Partito democratico.

Abbiamo chiesto al professor Stefano Luconi, docente Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova, di commentare questa designazione anche alla luce del ruolo che la figura del vicepresidente svolge nell’ambito del quadro politico e istituzionale degli Stati Uniti.

Tim Walz, il più recente degli inutili utili?

Concepito dagli estensori della Costituzione federale come un presidente di riserva, il vicepresidente è quasi sempre stato una figura marginale nella storia degli Stati Uniti, fatta eccezione per Dick Cheney nell’amministrazione di George W. Bush e, almeno in parte, per Joe Biden in quella di Barack Obama.
Non a caso, Thomas Marshall, vice di Woodrow Wilson dal 1913 al 1921, ironizzava sull’irrilevanza del proprio ruolo con una battuta: “C’erano una volta due fratelli; uno partì per mare, l’altro divenne vicepresidente, e di entrambi non si seppe più niente£.

Oltre al momento dell’eventuale ingresso alla Casa Bianca in sostituzione del presidente (circostanza che si è verificata solo nove volte dal 1789), l’unica altra occasione in cui generalmente si accende l’interesse per il vicepresidente è la nomina dei candidati a questa funzione durante le campagne elettorali.
Così è stato per la designazione di J.D. Vance in campo repubblicano il mese scorso e, più recentemente, per l’indicazione di Tim Walz, in attesa della ratifica formale alla convenzione democratica che si aprirà il prossimo 19 agosto, da parte di Kamala Harris.

Un secolo e mezzo di candidati a vicepresidente prodotti dei dirigenti di partito

La candidatura alla vicepresidenza è prevista solo dalle elezioni 1804. In precedenza la carica era assegnata al primo dei non eletti alla presidenza. Così nel 1797 il federalista John Adams si ritrovò come vice il repubblicano-democratico Thomas Jefferson che, per tutta la durata nel mandato, non fece altro che prepararsi per prendersi la rivincita nel 1800.

Tra il 1804 e il 1832, in un periodo in cui non esistevano ancora le convenzioni nazionali per la nomina dei candidati, furono i dirigenti dei partiti a decidere chi dovesse correre non solo per la presidenza ma anche per la vicepresidenza. L’esito di questa procedura fu talvolta altrettanto contraddittorio. Il democratico Andrew Jackson, difensore del protezionismo doganale, tra il 1829 e il 1832 ebbe come vice John C. Calhoun, che invece lo avversava fino al punto da sobillare il proprio Stato di origine, la Carolina del Sud, a non applicare i dazi stabiliti dal Congresso.

L’istituzione delle convenzioni nazionali non sottrasse ai dirigenti dei partiti la nomina dei candidati alla vicepresidenza. Il criterio a cui ricorsero prevalentemente fu, però, la fedeltà politica, anziché le qualità di governo o l’abilità nel raccogliere voti.

Sulla base di questa valutazione, ad esempio, nel 1880 i repubblicani proposero agli elettori come vicepresidente Chester A. Arthur, il capo dell’organizzazione del partito nello Stato di New York, un personaggio sconosciuto ai più che non aveva ricoperto fino ad allora incarichi di governo perché la sua principale mansione pubblica era stato quella di esattore delle tariffe doganali nel porto della città di New York.

La funzione di numero 2 dell’amministrazione federale era ritenuta talmente inutile che, fino alle dimissioni di Spiro Agnew nel 1973, quando i precedenti vice avevano lasciato la carica per succedere a un presidente deceduto o erano morti loro stessi, non vennero sostituiti. Di conseguenza, dopo che nel 1841 John Tyler fu subentrato al defunto William Harrison, scomparso a 30 giorni dall’ingresso alla Casa Bianca, gli Stati Uniti restarono senza vicepresidente per 3 anni e 11 mesi senza che nessuno si preoccupasse di questo vuoto. Il senatore Marcus Hanna, leader della fazione conservatrice dei repubblicani, riteneva che il vicepresidente fosse così insignificante che nel 1900 fece candidare alla carica il riformista Theodore Roosevelt nel tentativo, poi rivelatosi vano, di sbarazzarsene politicamente.

La parentesi di Abraham Lincoln

L’unica eccezione, dettata dalla contingenza bellica, si ebbe nel 1860. Mentre la guerra civile stava volgendo al termine, il repubblicano Abraham Lincoln volle come compagno di corsa Andrew Johnson, già senatore democratico di uno Stato meridionale, il Tennessee, ed ex proprietario di schiavi. Era il segnale di una volontà di riconciliazione nazionale per affrettare i tempi della resa del Sud secessionista.

La lezione di Franklin D. Roosevelt

A parte l’anticipazione di Lincoln, fu Franklin D. Roosevelt a inaugurare il sistema, ancora in vigore oggi, della designazione del proprio vice da parte del candidato alla presidenza. Nel 1940 Roosevelt impose alla convenzione democratica di nominare il progressista Henry A. Wallace al posto del vicepresidente in carica, il conservatore John N. Garner, minacciando che altrimenti non avrebbe accettato la candidatura per un nuovo mandato alla Casa Bianca.

Tuttavia, all’inizio questo metodo stentò ad affermarsi. Nel 1944 i dirigenti democratici costrinsero Roosevelt ad accettare la designazione di Harry S. Truman alla vicepresidenza. Consapevoli che Roosevelt era gravemente malato, sapevano che il vice gli sarebbe subentrato prima della fine naturale della sua amministrazione e pretesero che a succedergli fosse non un presunto radicale come Wallace ma un oscuro moderato quale Truman, che si illudevano di poter manovrare a piacimento.

In seguito, il vincitore della nomination democratica per la Casa Bianca nel 1952 e nel 1956, Adlai Stevenson, per non dare l’impressione di prevaricare sulla convenzione nazionale, nel rispetto della volontà espressa dagli elettori nelle primarie del partito lasciò che fossero ancora una volta i delegati a stabilire chi avrebbe corso come suo vice.

John F. Kennedy e il consolidamento del metodo di Roosevelt

Solo nel 1960, con un altro democratico, John F. Kennedy, si radicò definitivamente il modello a cui Franklin D. Roosevelt aveva dato avvio vent’anni prima. La scelta di Kennedy cadde su Lyndon B. Johnson.
La designazione fu determinata da quattro dei principali criteri che da allora hanno segnato la selezione dei candidati alla vicepresidenza: un bilanciamento geografico del ticket e la capacità di portare in dote il proprio Stato (Kennedy era espressione di uno Stato del Nord, il Massachusetts; Johnson di uno del Sud, il Texas protestante e segregazionista, che diffidava di Kennedy a causa della sua confessione cattolica e del suo ipotetico impegno in difesa dei diritti degli afroamericani); un riequilibrio della percezione pubblica dei candidati (Kennedy veniva considerato un progressista; Johnson era ritenuto un moderato); il riassorbimento delle lacerazioni interne al partito nel corso delle primarie (Johnson era stato il principale antagonista di Kennedy per il conseguimento della nomination per la Casa Bianca); l’esperienza legislativa e i buoni rapporti con il Congresso nella prospettiva di attuare con rapidità il programma presidenziale (Johnson era entrato alla Camera nel 1937 e al Senato nel 1949, e dal 1955 era il leader della maggioranza in questo secondo ramo).

Un quinto parametro si è poi configurato nell’abilità di raccogliere fondi. Kennedy non la prese in considerazione nel puntare su Johnson. La sfruttò, invece, il repubblicano Richard M. Nixon nel 1968, quando al governatore del Massachusetts John Volpe preferì Spiro Agnew per i consistenti finanziamenti che quest’ultimo riuscì a ottenere nella comunità greco-americana a cui apparteneva.

Nel 1960 l’operazione funzionò alla grande. Kennedy divenne presidente di strettissima misura grazie alla conquista del Texas e dei suoi 24 grandi elettori, resa possibile dal traino della popolarità di Johnson che gli assicurò il 50,5% dei voti nel suo Stato. Del resto Johnson, che era contemporaneamente candidato anche per un nuovo mandato al Senato, fu rieletto al Congresso con il 58% dei voti, a dimostrazione del favore di cui godeva in Texas.

Take This Walz

In base ai principi di strategia elettorale definiti dal 1960, Walz non pare la scelta più oculata per affiancare Harris rispetto alla possibile candidatura di Josh Shapiro, il governatore della Pennsylvania. Walz, come presidente dell’associazione dei governatori democratici, ha superato i suoi predecessori nella raccolta di finanziamenti elettorali.

Ma Harris, che ha percepito 81 milioni di dollari nelle prime 24 ore dalla rinuncia di Biden, non ha certo bisogno di un fund raiser. Si stima che il candidato a vice aumenti in media del 2,67% il voto per il ticket presidenziale nel proprio Stato. Però, quello guidato da Walz, il Minnesota, non è considerato uno Stato in bilico e, comunque, può portare a Harris appena 10 grandi elettori, poco più della metà dei 19 di cui dispone la Pennsylvania, la cui conquista è invece ritenuta imprescindibile per diventare presidente.
Inoltre, dopo essere stato membro della Camera dal 2007 al 2019, senza distinguersi per la sua attività legislativa, Walz ha rarefatto i suoi rapporti con il Congresso cinque anni fa con l’insediamento come governatore.

Infine, si presta a essere tacciato di estremismo al pari di Harris perché gli si può imputare un’eccessiva accondiscendenza verso il movimento Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd – avvenuto proprio in Minnesota – nel 2020, l’applicazione di lockdown incisivi durante la pandemia del covid-19, la restituzione del diritto di voto ai pregiudicati, la concessione della patente di guida agli immigrati irregolari, il varo di leggi a tutela delle persone Lgbtq+ e soprattutto la promulgazione del divieto di trattamenti di natura psicologica, ormonale e medica per ostacolare la fluidità di genere.

Oltre a essere un rappresentante della provincia americana bianca e rurale che Harris – espressione della California urbana e multirazziale – deve contendere a Trump, l’asset più significativo di Walz sembra l’avere preso le distanze da Israele nel conflitto in corso a Gaza, nel rispetto delle istanze filopalestinesi dell’ala radicale del partito democratico.

In questo modo, Walz potrebbe riconciliare con il ticket presidenziale quei numerosi democratici che hanno accusato la Casa Bianca di essersi appiattita sulla politica di Benjamin Netanyahu, al punto che lo scorso marzo, proprio nel Minnesota, il 19% dei votanti nelle primarie ha scelto di inviare alla convenzione di Chicago delegati che non si erano impegnati a sostenere l’allora candidato Biden.

Ancora giovedì scorso Harris è stata contestata durante un comizio in Michigan, uno stato chiave per la conquista della Casa Bianca con un consistente elettorato musulmano, a causa dell’appoggio dell’amministrazione Biden a Israele. È, però, opinabile quanto la posizione di Walz possa essere elettoralmente utile a Harris.

Non a caso, martedì scorso una delle più accese sostenitrici della causa palestinese alla Camera, Cori Bush, ha perso la nomination democratica a favore di Wesley Bell nel primo distretto del Missouri, incorrendo nello stesso destino toccato a Jamaal Bowman, un altro inveterato fustigatore della politica israeliana a Gaza, sconfitto a luglio da George Latimer nella circoscrizione newyorkese del Bronx.
Sia Bush sia Bowman sono stati affossati dall’opposizione della più influente lobby ebraica, l’American Israel Public Affairs Committee, già contrariata dal fatto che Shapiro, ebreo e filoisraeliano, è stato soppiantato da Walz per la nomination democratica alla vicepresidenza.

Chi è

Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).

Libri:
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle.

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