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ACCADDE OGGI – Il 10 giugno 1924 l’assassinio fascista di Giacomo Matteotti, profeta scomodo di un socialismo democratico

Dalla sua coraggiosa opposizione al regime totalitario alla difesa appassionata della democrazia, Matteotti ha illuminato il cammino per un’Italia libera e progressista. La sua memoria continua a ispirare il coraggio e la determinazione nella lotta contro ogni forma di oppressione

ACCADDE OGGI – Il 10 giugno 1924 l’assassinio fascista di Giacomo Matteotti, profeta scomodo di un socialismo democratico

L’anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti deve essere l’occasione per ricordare l’uomo senza costruirne un santino da venerare perché la sua grandezza si ritrova nella sua vita e non nella sua morte. Giacomo Matteotti fu vittima del fascismo, al pari di Giuseppe di Vagno, don Giuseppe Minzoni e tanti altri in una guerra civile combattuta ad armi impari contro la forza militare organizzata di una fazione, tollerata e spesso aiutata dal tradimento delle Istituzioni ad ogni livello. Le cause, le complicità e gli errori commessi dalle forze democratiche e dal Vaticano che portarono al crollo della democrazia in Italia nel primo dopoguerra sono abbastanza noti. Proprio per questo una figura come Giacomo Matteotti, che intuì con largo anticipo la natura del fascismo e la reale minaccia alla democrazia, merita di essere indicato come esempio alle nuove generazioni.

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La vita di Matteotti fu variegata e impegnata

Nella sua vita fu amministratore comunale, sindacalista dei braccianti e poi alla guida della Camera del Lavoro di Ferrara, giurista di grande valore pur rinunciando ad una cattedra universitaria, dirigente politico socialista, infine parlamentare. Nell’ottobre del 1922, espulso dalla maggioranza massimalista del PSI insieme a Turati e agli altri riformisti, diede vita al Partito Socialista Unitario del quale fu eletto segretario. Dotato di un forte convincimento della necessità di dar vita ad una profonda rivoluzione sociale senza ricorrere alla “dittatura del proletariato”, affrontò le questioni più concrete come l’istruzione e la casa per i ceti più poveri che nel suo Polesine costituivano un esempio di arretratezza e di miseria sconvolgente. Era un borghese che poteva vivere di rendita ma tradì la sua classe sociale e si meritò l’accusa di “socialista impellicciato” mettendosi al servizio del proletariato del suo tempo con rara dedizione e professionalità.

Matteotti: una voce autorevole nell’arena politica

Affrontava con grande serietà e con capacità di analisi ogni problema con l’intento di offrire soluzione utili anche se parziali. L’approfondimento delle questioni sul tappeto davano credibilità alle sue iniziative e affidabilità nei risultati. Nel suo lavoro aveva un altissimo senso della responsabilità di quanto diceva e faceva. Il suo rigore e il suo attivismo infaticabile gli procurarono non poche ostilità, anche all’interno del suo partito. Non solo i suoi scritti ma anche gli interventi alla Camera dei deputati era accuratamente preparati e puntualmente documentati. I suoi discorsi erano quelli di un oppositore che si proponeva come alternativa di governo, molto più insidiosi per il potere di quanto non fossero quelli dei predicatori della rivoluzione che alimentavano la paura tra la borghesia e facevano senza accorgersene il gioco degli avversari. Non escludeva a priori la violenza ma rifiutava la linea massimalista che predicava l’azione violenta come un fine e non come un mezzo. Diceva che “Noi siamo per la lotta di classe, non per la guerra di classe”.

Se si convinceva di qualcosa ne era coerentemente conseguente e ne assumeva ogni rischio. Pagò di persona per la sua ferma ostilità alla guerra quando nel 1916 giunse, nel Consiglio Provinciale di Rovigo a chiedere l’utilizzo di tutte le armi possibili, compreso uno scoppio di violenza per fermare il conflitto mondiale. Fu considerato una specie di obiettore di coscienza ante litteram e quando fu chiamato alle armi, subì una sorta di confino militare in Sicilia. Questo non gli impedì di prendere le distanze da Turati e dagli altri riformisti che dopo Caporetto si schierarono a fianco dei soldati italiani e in difesa del suolo patrio. Si definiva “riformista perché rivoluzionario” e indicava per il socialismo la via delle amministrazioni comunali e delle leghe contadine ed operaie in alternativa a quella dei soviet. Rivendicava l’autonomia delle amministrazioni locali e intuiva l’esigenza di una Unione tra gli Stati d’Europa.

La ribellione di Matteotti: la trasformazione del PSI e la lotta contro il fascismo

Nel suo intervento al congresso del PSI a Milano nell’ottobre del 1921, un anno prima della sua espulsione dal partito, Matteotti interviene sulle “tendenze”, come si chiamavano allora le correnti del partito. I massimalisti escludevano si ipotizzasse qualunque “transigenza”, ogni accordo tra i socialisti e i partiti “borghesi”, a maggior ragione una partecipazione del PSI al governo. In realtà era in discussione l’ipotesi di costruire una maggioranza di governo con Giolitti per sconfiggere il fascismo sul piano democratico parlamentare, l’unica via possibile per tagliare la strada a Mussolini. Matteotti chiede alla maggioranza di “ammettere la transigenza magari per non usarla mai, la partecipazione al potere magari per non usarla mai” ma davanti al fuoco di fila degli intransigenti assoluti, di cui denuncia la mancanza di ogni concreto programma, diventa caustico: “Voi dite male del Gruppo Parlamentare Socialista che non vi scodella ogni giorno il socialismo e la rivoluzione, ma al quale poi scrivete chiedendo per lettera i più bassi, inutili e meno decenti servizi”. Il resoconto registra “Applausi vivissimi e prolungati “dei delegati.

Nel suo intervento Matteotti ammonisce la maggioranza sottolineando che l’espulsione paventata dei riformisti non produrrà che due o più partiti socialisti deboli e inutili, incapaci di fermare il fascismo che ha già creato in alcuni territori una situazione tremenda a cui il partito non sa dare alcuna risposta. Racconta Matteotti che ha sentito dire a uno dei migliori dirigenti del partito:” Sì compagni le cose vanno abbastanza meglio perché non si muore più frequentemente come prima, ma non si muore più perché non si vive più”. Matteotti sottolinea che la terra bruciata attorno alle leghe non è un fenomeno isolato ma rischia di allargarsi a tutto il paese nella forma più pericolosa ed è necessario preoccuparsene finché si è in tempo discutendo subito nel partito, “senza vaniloqui e inutili minacce”, quale via scegliere tra quella istituzionale e quella della violenza.

Matteotti: il democratico scomodo

Che Giacomo Matteotti sia stato uno il più determinato e temuto avversario del fascismo è fuori discussione ed è questa la ragione per cui è considerato a pieno titolo il simbolo riconosciuto dell’antifascismo. Ma Matteotti non fu solo l’antifascista, fu soprattutto il democratico, un titolo che non deriva dall’essere semplicemente antifascista. Nella sua veste di segretario del PSU risponde attraverso “La Giustizia”, il quotidiano del PSU, ad una proposta del Partito Comunista che in vista del primo maggio del 1924 ha proclamato lo sciopero generale e ha invitato a iniziative comuni il PSI e il PSU. Il linguaggio è tagliente. Secondo Matteotti le proposte del partito comunista sono formulate solo a scopo polemico, il che “può creare piacere e vantaggio a voi, come al governo fascista dominante con gli stessi metodi di dittatura e di violenza che voi auspicate. Restiamo ognuno quel che siamo: Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c’è quindi nulla in comune tra noi e voi”. Il 25 maggio 1924 nel suo ultimo articolo su “La Giustizia”, Giacomo Matteotti prende spunto dal rifiuto del gruppo dirigente del PSI ad accogliere la proposta di unità tra i due partiti socialisti, Il PSI e il PSU, che era stata avanzata dal partito di Matteotti che sottolinea: “ho sempre visto una identità sostanziale tra tutti i socialisti e un’antitesi netta soltanto col comunismo”.

Matteotti, un antifascista democratico scomodo

Matteotti manifesta una certa indignazione di fronte alla formale proposta della direzione massimalista di un “avvicinamento tra Mosca e Londra per una comune intesa” e per opporre uniti una valida resistenza alle forze reazionarie e si chiede: “Come? Tra unitari e massimalisti non vi è possibilità di unione perché le strade e le concezioni sono, secondo loro, opposte e propongono nientemeno che l’unione tra Mosca e Londra, cioè tra l’Internazionale socialista e quella comunista, della quale sì, veramente e a riconoscimento di tutti, i metodi sono opposti ed incompatibili? “E conclude: “Bisogna avere idee chiare sulla via da percorrere, gli equivoci non sono permessi.” Per il segretario del PSU non basta più ripetere di essere intransigenti.” Bisogna fare: o di qua o di là! O col socialismo o col comunismo. Col massimalismo equivoco nulla si conclude”. Infine, l’ultima considerazione: “I lavoratori non possono più esimersi dal pensare e dal decidere. La libertà e il socialismo non piovono dall’alto. Bisogna conquistarseli, marciando uniti contro l’avversario e spezzando l’equivoco che impedisce la marcia.” Questo era Giacomo Matteotti, un antifascista democratico scomodo che va conosciuto per la sua intera, anche se breve, vita. Può certo non essere condiviso o anche criticato (lui non se ne dorrebbe più di tanto) ma ha il diritto ad essere liberamente giudicato per quello che è stato, per i suoi principi, per ciò che ha detto e fatto.

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