Condividi

Presidenza Usa, Trump punta sul servilismo della Corte Suprema e sulla cultura della falsità ma così si sfascia la democrazia

La realtà politica americana riflette una lotta serrata tra Biden e Trump, che si giocherà su pochi voti in Stati chiave. Mentre Trump nega la sua sconfitta e mette in discussione il sistema giudiziario, la candidatura di Larry Hogan rivela le divisioni nel Partito Repubblicano. La vittoria o la sconfitta di Trump potrebbe scatenare tensioni politiche e legali, amplificando la frattura nazionale

Presidenza Usa, Trump punta sul servilismo della Corte Suprema e sulla cultura della falsità ma così si sfascia la democrazia

La realtà americana di questi giorni si trova meglio in quelle notizie che la stampa europea ed italiana spesso non riporta, marginali ma rivelatrici. Confermano che la lotta fra Joe Biden e Donald Trump è all’arma bianca, si giocherà su poche migliaia di voti di scarto in pochi Stati come del resto accadde nel 2016 e nel 2020. E confermano quanto circa un secolo fa scriveva sulla democrazia Henry Louis Mencken, l’unico giornalista americano, e mondiale forse, i cui articoli sono ancora spesso letti e chiosati 100 anni dopo essere stati scritti: “La democrazia è la patetica fiducia nella saggezza collettiva dell’ignoranza individuale”. A cui aggiungeva, e questa suona molto meglio in inglese: “Democracy is also a form of worship. It is the worship of jackals by jackasses”. La democrazia è anche una forma di adorazione. Quella degli sciacalli da parte degli idioti.

La candidatura di Larry Hogan e le reazioni nel Partito Repubblicano

L’ultima notizia marginale e rivelatrice è fornita dall’ex governatore repubblicano del Maryland, in carica per due mandati. Larry Hogan si presenta a novembre per il Senato, ha sufficienti probabilità di vincere e quindi forse decidere quella che sarà una risicata maggioranza repubblicana. Corre in uno Stato vinto da Biden nel 2020 con un fortissimo margine di oltre il 30%, ha bisogno di parte del voto centrista, e quindi dopo il giudizio di condanna di Trump la settimana scorsa ha dichiarato che il responso dei giurati di New York non può che essere accettato, appellato sì, ma non rifiutato. “A questo punto non merita il rispetto di nessuno nel partito repubblicano”, ha subito detto di Hogan Lara Trump, nuora dell’ex presidente, da lui installata a marzo ai vertici del partito repubblicano e dei fondi che adesso, ha aggiunto, potrebbe lesinare alla campagna di Hogan. La lealtà a Donald Trump, ha scritto il Washington Post, definita in termini di svilimento del sistema elettorale e di disprezzo del sistema giudiziario, ha il sopravvento su tutto, persino sulla prospettiva di strappare una maggioranza in bilico al Senato. In God We Trust si legge su monete e banconote americane di vario taglio. In Trump We Trust sembra essere il grido di almeno 30 milioni di americani, più che sufficienti per dominare il partito repubblicano, ma non per vincere. E Pluribus Unum si legge su altre, ma i tempi sono più di divisione che di unità.

Di fatto per novembre Trump impone agli americani questo duplice quesito: volete voi riconoscere che nel 2020 ho perso perché vittima di brogli elettorali e volete voi salvare con me, e rigenerare, un sistema giudiziario totalmente disonesto? Dovessero rispondere no, ha già anticipato Trump, sarebbe l’ennesimo inaccettabile imbroglio. Trump dichiara vittoria prima di avere vinto. Rigged, manipolato, imbrogliato, è il participio che sempre accompagna per il trumpismo il concetto non solo di competizione elettorale, ma anche di giustizia. Se il 5 novembre Trump perderà, cosa possibile allo stato attuale così come possibile è una vittoria, vuol dire che il voto sarà stato rigged, e nessuno potrà garantire l’ordine pubblico, ha ormai molte volte avvertito Trump, con ampia eco da parte del trumpismo ad ogni livello, incapace di rendersi conto che in un Paese normale questo linguaggio è inconcepibile.

Il ruolo della Corte Suprema

Un punto debole in questa sciarada di rigged è dato dal comportamento della Corte Suprema che, a maggioranza, sei su nove o almeno cinque e mezzo su nove (il giudice conservatore Amy Coney Barrett cerca di salvare a volte le apparenze) è schierata a favore di Trump. E non solo nella tecnica del costante rinvio, perseguita con successo, per il più grave dei procedimenti federali a suo carico, quello sulla immunità presidenziale vera o presunta. Sia l’accusa, il Dipartimento della Giustizia, sia Trump hanno fatto ricorso alla Corte. Trump sostenendo che l’immunità lo copre nel ruolo avuto il 6 gennaio 2021 nei fatti di assalto al Campidoglio, che lui continua a definire una azione da “patrioti”. Il Dipartimento sostenendo che in quel caso non esiste nessuna immunità, perché è stata infranta la legge per vantaggio personale. Il responso è atteso entro giugno. Ma dal dibattito preliminare sul caso, tenuto il 25 aprile, è emerso dagli argomenti dell’ultra partigiano giudice Samuel Alito e di altri che:

 a) si vuole parlare dell’immunità senza menzione e senza giudizio sui fatti, troppo imbarazzanti, che questo dibattito hanno originato, cioè l’attacco al Campidoglio del gennaio 2021;

 b) si vuole stabilire il concetto di immunità in astratto, in senso filosofico quasi, senza riferimenti concreti, perché si cerca di evitare ogni legame col gennaio 2021, per Trump molto pericolosi perché l’intera America, e il mondo intero, sono stati via tv testimoni dei fatti.

I legami che portano direttamente la responsabilità a Trump, nei preparativi fatti a dicembre, sono noti e chiari. Email scambiate fra senatori repubblicani definiscono in quei giorni Trump l’istigator del tutto. Ma la suprema Corte chiude gli occhi, probabilmente. Più rigged di così non si può. Aspettiamo le conclusioni della Corte promesse ormai a giorni ma, per quanto abili, potrebbero rappresentare per Trump un brutto colpo, per eccesso di servilismo e palese tradimento del ruolo della Corte.

Quando la verità diventa opinione: l’ascesa dei “fatti alternativi” nell’era Trump

Da quando Donald Trump è salito sul podio gli Stati Uniti non sono più un Paese normale perché nel dibattito politico è saltato ogni confine tra il vero e il falso. Da sempre anche nella politica Usa il confine è labile, naturalmente, e ampiamente manipolato, ma mai era stata teorizzata l’inesistenza di questo confine con un’operazione sofistica di straordinaria rozzezza e irresponsabilità che ha capitalizzato sulle ansie e le preoccupazioni della base elettorale. 

Un episodio segna più di altri l’inizio di questa stagione, risale al 22 gennaio 2017 quando il consigliere presidenziale Kellyanne Conway spiegò in tv che il portavoce di Trump, Sean Spicer, sostenendo che la folla presente all’inaugurazione del presidente aveva battuto due giorni prima tutti i record, non aveva detto una falsità, come ogni confronto fotografico dimostrava, ma fornito soltanto un “fatto alternativo”. A chi le obiettava che il fatto alternativo o cambia davvero la verità o è un falso la Conway forniva tempo dopo questa elaborata spiegazione: poiché chi seleziona normalmente fatti notizie e dati appartiene in genere alla cultura liberal la “gente”, che liberal non è, tende a formarsi le proprie idee scegliendo da sola i fatti di riferimento, “la gente sa, hanno i loro fatti e i loro dati, nel senso del significato che questi fatti e dati rivestono per loro”. Come se accanto a quella del mainstream, che comunque segue alcune regole, non esistessero anche disinvolte “fabbriche” di notizie e dati senza onere di prova.

“Mr. Biden” e “President Trump”: quando la falsità diventa protocollo nella politica Usa

Un caso analogo è il vezzo, affermatosi di recente per affermare che tutto è rigged fuorché Trump, di chiamare l’attuale presidente Mr. Biden, il che va contro ogni regola ed etichetta, e chiamare il suo rivale President Trump, il che ugualmente va contro ogni regola ed etichetta, perché il titolo formale è, in terza persona, former President Trump e nell’allocuzione diretta Mr. Trump. Ma senatori, deputati governatori noti giornalisti tv ora sugli schermi di Rupert Murdoch, e altri, sono passati al Mr.Biden e al President Trump, e anche questo è un “fatto alternativo”. 

Questa cultura della falsità, sempre utilizzabile per colpire il nemico, ha fatto scuola a lungo, e ha radici pre-trumpiane vecchie di 30 e più anni, legate al ruolo di politici come Newton Gingrich e Pat Buchanan, che hanno radicalizzato il partito repubblicano e, Gingrich in particolare, decimato la categoria dei repubblicani moderati. Trump l’ha distrutta, anche se alcuni segnali, gli ultimi da uno Stato ultrarepubblicano come l’Idaho, dicono che non tutto è perduto. La Corte Suprema si allinea (il prezzo che potrebbe pagare col tempo per tradimento del proprio mandato è molto alto) e ormai solo il voto del 5 novembre potrà confermare se il “fatto alternativo” per un terzo abbondante degli americani resterà sempre una forte tentazione. È probabile, infatti, che la sconfitta di Trump fra cinque mesi, se ci sarà, sia l’inizio della fine del trumpismo.

Le conseguenze di una vittoria o sconfitta di Trump

Che accadrà se Trump perde? E che accadrà se vince? Per dare un’ultima misura del pericolo seguiamo Sean Trende, 51 anni, giornalista e sondaggista, firma di punta del sito Real Clear Politics, prima più ecumenico e da alcuni anni sostanzialmente trumpiano, un aggregator di notizie politiche, economiche, geostrategiche e altro e di sondaggi, più propri autori, molto utilizzato e citato. 

“Se Trump perde”, dice Trende in un articolo rilanciato recentemente, alla vigilia del giudizio dei 12 giurati di New York, “i repubblicani non accetteranno mai la legittimità della presidenza Biden (ndr, e qui si inserisce una singolare nuova norma costituzionale, il placet degli sconfitti e senza onere di prova per poter dichiarare i vincitori), attribuendola alle manovre dell’apparato giudiziario di New York. Le probabilità di violenza politica (ndr, così aggiunge Trende senza battere ciglio), anche in una forma di guerra civile a bassa intensità, non esplosiva quindi ma reale, saranno molto più alte rispetto a quanto ho potuto considerare plausibile a mia memoria. Se Trump viene condannato (ndr, è stato condannato) e poi la sentenza verrà scartata in appello le cose saranno ancora peggiori”, perché la sconfitta al voto verrà attribuita a una sentenza illegittima. 

E Trende continua. “Se Trump vince …non andrà molto meglio. Joe Biden e Hillary Clinton dovranno passare molto tempo in tribunale. Letitia James e Alvin Bragg (ndr, la pubblica accusa nei due processi newyorkesi finiti male per Trump) avrebbero fatto meglio a vivere in convento negli ultimi decenni. L’intero peso del ministero della Giustizia li schiaccerà, e incriminare ex presidenti e oppositori politici diventerà normale come normali sono diventati i tentativi di impeachment. Per i repubblicani non farà differenza se ad aprire procedimenti è il ministero della Giustizia o la magistratura di New York. E per Trump ancora meno”. Attaccando legalmente Trump i democratici hanno bruciato i ponti alle spalle, dice Trende, e non ci si può illudere che i ponti esistano ancora, conclude.

E allora? Non resta che Trump?

Un caveat per i trumpiani, e una speranza ragionevole: è chiaro che tutto il trumpismo, e la campagna di Trump, giocano molto sulla inevitabilità della sua vittoria. Basata sui sondaggi, e sulla incrollabile fede dei suoi seguaci, e sugli 82 anni nel gennaio prossimo di Joe Biden. Ma i seguaci veri sono al massimo un terzo degli elettori. Tantissimi, ma non bastano affatto. Trump può vincere, 10mila voti qui, 3mila là, e alla fine 20 o 30 electoral votes in più di Biden. Ma così può fare Biden. Che ha tante pecche, ma un vantaggio: non è Trump.

Commenta