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Salari italiani in discesa? È la bassa produttività il vero tallone d’Achille. I sindacati dovrebbero farsi qualche domanda

Alfredo Recanatesi risponde a Giuliano Cazzola sulle vere ragioni della riduzione dei salari netti in Italia e pone la produttività al centro di tutte le questioni chiamando in causa sindacati e imprese

Salari italiani in discesa? È la bassa produttività il vero tallone d’Achille. I sindacati dovrebbero farsi qualche domanda

In un articolo pubblicato lunedì su FIRSTonline, Giuliano Cazzola ha spiegato da par suo alcune ragioni per le quali l’Italia è l’unico Paese d’Europa nel quale le retribuzioni reali, ossia il potere d’acquisto di stipendi e salari, sono diminuite rispetto a trent’anni fa. Trent’anni! Lo fa da par suo perché, non se n’abbia, la sua analisi pecca di sindacalismo, ossia di un approccio che si risolve in una sia pur cospicua somma di minuzie nella quale si perde il filo dell’evoluzione in scala storica. 

È il difetto che, a mio avviso, connota la politica sindacale degli ultimi decenni, condizionata com’è stata, e come tuttora è, dalla esperienza storica di un Paese sostanzialmente povero a lungo afflitto da una carenza di occupazione. Si potrebbe dire che la politica sindacale – di tutte le organizzazioni sindacali, a cominciare da quella che un tempo veniva denominata “la triplice” – si è sempre persa sui problemi tattici perdendo di vista – se mai l’abbia avuta – la visione dei problemi strategici

L’ossessione per l’occupazione ha prodotto un gioco al ribasso su qualità e salari

Per dirla in breve, e con una punta di cinismo che talvolta male non fa, l’ossessione per l’occupazione, per la “difesa del posto di lavoro” spesso attuata oltraggiando anche i più elementari principi dell’economia, ha prodotto un gioco al ribasso sulla qualità e sulla resa economica di quel lavoro come dimostra senza possibilità di dubbio il fatto che sta all’origine di quella perdita di potere d’acquisto di stipendi e salari, ossia la stagnazione o addirittura il regresso della produttività di una unità di lavoro: tema al quale Cazzola accenna, ma per farlo subito cadere mentre è il fondamento di ogni analisi su questi argomenti.

Forzare l’esistenza in vita di aziende decotte, o trovare per chi ha perso il lavoro attività sostitutive spesso inventate con un eccesso di creatività, o ancora accettando contratti di solidarietà ha comportato ogni volta la discesa di qualche gradino nel valore aggiunto che quel lavoro aveva prodotto o era comunque in grado di produrre, e quella perdita non poteva che generare in un modo o nell’altro, una riduzione della sua remunerazione

Ma c’è di più. C’è che di questo atteggiamento dei sindacati le imprese hanno approfittato avendo avuto modo di sostituire i vantaggi competitivi che al tempo della lira erano dati dalle ricorrenti svalutazioni della moneta con il contenimento diretto o indiretto del costo del lavoro (anche tenendo conto del cuneo fiscale). Così si è potuto lesinare sugli investimenti in innovazione, digitalizzazione ed in tutto quanto può accrescere il valore aggiunto dell’attività produttiva, con la conseguenza di innestare una spirale verso il basso che ben si sintetizza nella dinamica delle retribuzioni reali del lavoro come del Pil e di tutte le statistiche sul benessere. 

Ai lavoratori servono Imprenditori “da Italia”

Tornando all’intervento di Cazzola, ogni punto che lui tratta può essere condiviso, ma nella maggior parte dei casi si tratta di spostare con varie tecniche oneri da una parte all’altra, mentre manca, come si diceva, la strategia: aumentare la produttività e, quindi, la disponibilità di risorse da distribuire tra lavoratori (che ne ricevono poche) ed imprese (che invece vanno alla grande). 

In tempi ormai lontani, ad un vice-presidente della Confindustria che fronteggiava i sindacati con la minaccia “se no ce ne andiamo in Romania” replicai (un po’ provocatoriamente, certo) che ci andassero pure se erano imprenditori “da Romania” perché noi italiani ambiamo imprenditori “da Italia”, argomentando questa asserzione con dati statistici secondo i quali le imprese estere che operano nel nostro Paese (quindi nelle stesse condizioni in cui operano quelle italiane) realizzano una produttività quasi doppia a quella media delle imprese domestiche (per non parlare delle grandi imprese che realizzano una produttività molto maggiore delle piccole che, invece, i sindacati hanno sempre difeso). Da parte sindacale fui accusato di darwinismo poiché era implicita l’accettazione della eliminazione delle imprese non competitive (ovviamente con la tutela a carico della fiscalità generale dei lavoratori coinvolti). Ma chissà: se già da allora un po’ di darwinismo fosse stato accettato forse in questi ultimi trent’anni qualche progresso lo avremmo fatto anziché andare indietro. E a proposito di “chissà”: di fronte a questi dati sui salari reali i sindacati qualche domanda se la sono posta?

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