L’opposizione di sinistra ha davvero intenzione di pervenire a qualche forma di salario legale, sia esso minimo o giusto? Oppure vuole soltanto fare della propaganda per accusare il gran rifiuto del governo? Il dubbio è legittimo per come il Pd, il M5S e AVS hanno voluto riproporre la questione durante la campagna elettorale per il Parlamento europeo, praticamente ripartendo da zero rispetto a come è stata gestita l’operazione salario minimo l’anno scorso.
L’unica novità consiste nella scelta del vettore normativo che questa volta dovrebbe essere – adempiute le relative modalità – un disegno di legge di iniziativa popolare. Ormai la lotta politica si fa con la firma, passando dal tavolo dove la Cgil raccoglie le adesioni ai quattro referendum in materia di lavoro a quello più angusto dove con la penna e la carta d’identità si continuerà la battaglia che, da quando la destra ha vinto le elezioni, è riuscita a mettere in difficoltà il governo Meloni. Sta proprio qui l’errore che ha compiuto la sinistra: aver trasformato una mezza vittoria in una cocente sconfitta.
Per chiarire il ragionamento ripercorriamo in sintesi i fatti.
La lotta politica sul salario minimo
Dopo la sconfitta della prima apparizione del campo largo nelle elezioni regionali del 2023, i leader – con la sola eccezione di Matteo Renzi, il quale per esperienza personale ha imparato ad individuare le trappole – vengono indotti dall’approvazione, dopo lunga discussione, della direttiva sul salario minimo, vanno a ripescare un testo base elaborato dalla Commissione del Lavoro del Senato nei primi mesi della precedente legislatura, a prima firma dell’allora presidente Nunzia Catalfo, accantonato allo scoppio della pandemia, lo ripuliscono e lo presentano corredato delle loro firme e accartocciato intorno al numero magico – 9 euro lordi all’ora – già indicato nel testo Catalfo, sulla base di criteri che sono sempre rimasti avvolti dal mistero come la ricetta della Coca Cola.
Il governo, forte di una risoluzione approvata dalla Camera contraria all’istituzione di un salario minimo legale, rimane sulla sua posizione. Ma le opposizioni insistono e si avvalgono dei diritti regolamentari riconosciuti alle minoranze per portare in discussione la loro proposta di legge. Mentre la maggioranza si attrezza a bocciare già in Commissione il testo, nel Paese succede il finimondo. L’apparato dell’informazione contraria alla destra intuisce che l’argomento è propizio per mettere in difficoltà il governo perché si ostina a negare persino una modesta cifra di 9 euro come salario minimo di legge a milioni di lavoratori che non arrivano a percepirlo. Le opposizioni con la loro proposta fanno fiotto, mentre gli esponenti della maggioranza si alambiccano a spiegare sotto il tiro di conduttori implacabili che una scelta siffatta potrebbe mettere in difficoltà la contrattazione collettiva, senza riuscire a convincere l’opinione pubblica.
Il governo non se la sente più di liquidare con un voto in Commissione una misura che viene indicata dall’Europa sia pure con diverse distinzioni e che ha colpito l’immaginario collettivo. Avverte la difficoltà e chiede tempo per formulare una proposta di maggioranza, ma le opposizioni pretendono di andare al voto in Aula perché giudicano più conveniente poter denunciare l’insensibilità della destra verso il lavoro povero.
L’incarico al Cnel
Ormai con le spalle al muro, Giorgia Meloni ha un’idea brillante che le consente di rimandare il dibattito e la votazione dopo la pausa estiva: incaricare il CNEL redivivo ed affidato al vulcanico Renato Brunetta di presentare una proposta alla ripresa dei lavori: cosa che avviene con puntualità e buone argomentazioni, perché il dibattito ha fornito l’occasione per esaminare a fondo lo stato della contrattazione collettiva in Italia, arrivando a chiarire l’inconsistenza molte argomentazioni ormai date per scontate (come la questione dei c.d. contratti pirata, presentati come un flagello della contrattazione ma che interessano una percentuale da prefisso telefonico di lavoratori).
Si scopre così che una percentuale molto vicina al 100% di lavoratori dipendenti è coperta da un contratto collettivo, per di più stipulato da federazioni di categoria affiliate alle confederazioni storiche. La pausa e l’elaborazione del CNEL consente alla maggioranza di presentare il suo progetto consistente in una legge di delega molto ambiziosa che sul punto cruciale evita di indicare l’importo del salario orario legale, adottando come trattamento minimo per tutti i lavoratori quello contenuto nei contratti maggiormente applicati nell’unità contrattuale di riferimento.
Le opposizioni insorgono, sostenendo che senza l’iscrizione del numero magico in un articolo di legge la maggioranza rifiuta di provvedere ai lavoratori poveri garantendo loro un minimo di retribuzione decente. Qui, a mio avviso, sta l’errore compiuto a suo tempo ed emerge la prova del carattere propagandistico dell’operazione salario minimo: meglio poter criticare il governo piuttosto che avvicinarsi alla soluzione del problema. Da qui si riparte adesso.
Il nuovo iter
Siamo in presenza di una proposta di legge approvata dalla Camera e giacente al Senato, magari un po’ dimenticata e trascurata anche dalla maggioranza. Non sarebbe più sensato chiedere al governo di disincagliare il testo per discuterlo a Palazzo Madama magari in una logica collaborativa. Inoltre, i sindacati su questo tema non hanno mai cercato di confrontarsi con le organizzazioni imprenditoriali.
Oggi la Confindustria ha rinnovato i propri vertici. Non sarebbe il caso allora di riportare – almeno di provarci – una questione attinente alla retribuzione nell’alveo naturale della contrattazione collettiva? Peraltro se non fossero accecate dall’odio, le opposizioni potrebbero accorgersi che il governo ha inserito una novità importante nella conversione del decreto PNRR in materia di lavoro. Dopo la tragedia nella centrale sul lago di Suviana, il governo presentò un emendamento (approvato) in cui era stabilito che i contratti da applicare a tutti i lavoratori non fossero quelli prevalenti in un ambito specifico, bensì quelli stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. Non dovrebbe essere difficile applicare questi criteri anche per individuare il trattamento complessivo minimo a cui si riferisce la norma di delega approvata dalla Camera.
Meglio che ripartire da zero
Questo sarebbe un percorso più ragionevole che ripartire da capo come vogliono fare le sinistre (che nel frattempo hanno perso anche Azione). Purtroppo, è nota la tendenza del Pd a pentirsi delle iniziative assunte stando al governo. Lo vediamo nella tentazione (Conte, con la sua firma, ha affondato il coltello nella piaga) di precipitarsi ai tavoli per sottoscrivere i referendum della Cgil. Nel caso del salario minimo sarebbe il caso che i dem facessero più attenzione, perché qualcuno potrebbe ricordarsi del lavoro compiuto sotto la direzione di Andrea Orlando, che il ministro stesso volle raccontare pochi giorni prima della caduta del governo Draghi:’’ Il governo lavora ad “un meccanismo che tenga insieme il valore positivo della contrattazione collettiva e l’esigenza di un salario minimo” per chi non beneficia della contrattazione o per chi ha contratti cosiddetti ‘pirata’. E aggiunse il titolare del Lavoro. “L’ipotesi su cui lavoriamo, che ha raccolto un preliminare consenso, riguarda la possibilità di usare come riferimento i contratti più diffusi o firmati delle organizzazioni maggiormente rappresentative’’.