Pubblichiamo la seconda parte del contributo della germanista Claudia Sonino per il centenario della morte di Franz Kafka.
La prima parte, pubblicata la scorsa settimana su FIRSTonline, si trova qui.
Un momento di crisi
Nel racconto Il digiunatore emerge tutta la ambivalenza di Kafka nei confronti dell’esistenza artistica, ascetica e distaccata dal mondo. Il digiunatore appartiene alla schiera dei molti estranei, stranieri o diversi ai quali, nell’opera di Kafka, è vietato o impossibile saziarsi in maniera normale. Ma il digiunatore ha anche un altro problema, ha addirittura una pretesa: proprio in forza del suo non nutrirsi vuole ricoprire un posto speciale nella comunità. Con il suo digiuno sembra voler insistere a far parte del mondo, anche se, per la serie di paradossi che contraddistingue il racconto, questo significa per lui dare prova che esiste un mondo dell’incomprensione.
In questo racconto Kafka sembra, in qualche modo, voler considerare retrospettivamente la sua carriera di digiunatore. Concepito probabilmente il 23 Maggio 1922 – il testo è scritto in un momento di crisi profonda e lo rispecchia pienamente.
Della crisi facevano parte vari motivi, certo l’inarrestabile malattia – la tubercolosi – che nessun sanatorio o casa di cura riusciva a rallentare, ma anche il fallimento del suo legame con Milena Jèsenska. Nel gennaio del ’22 subentra un grave crollo nervoso e tutto sembra perduto. Kafka interrompe il lavoro al Castello e scrive Il digiunatore.
L’artista del digiuno
Il racconto inizia con una considerazione sobria e oggettiva, riguardo all’epoca d’oro, in cui “tutti volevano vedere il digiunatore”. Ma il riconoscimento che pur gli era tributato non sembra aver mai appagato l’artista del digiuno, e i sospetti, per esempio, che circondano il suo digiuno da parte dei guardiani hanno finito per renderlo malinconico.
Essi infatti non credono possibile che egli digiuni veramente per tutto quel tempo e mentre alcuni di loro vorrebbero aiutarlo a cibarsi di nascosto, gli altri invece lo vorrebbero osservare in maniera più precisa, anche di notte, per coglierlo in fallo. L’artista del digiuno potrebbe sperare di convincere almeno questi ultimi della purezza della sua arte, fare loro vedere che egli digiuna come nessun altro. Ma nessuno dei guardiani era poi effettivamente in grado di passare tutte le notti e i giorni accanto al digiunatore per verificare se il digiuno fosse osservato in piena regola e senza interruzioni:
“Era impossibile lottare contro una simile incomprensione, contro questa universale incomprensione”. “Egli solo sapeva … quanto fosse facile il digiunare. Era la cosa più facile del mondo.… Solo il digiunatore in persona era in grado di saperlo e di essere così anche lo spettatore pienamente soddisfatto del suo digiuno… Egli invece non era soddisfatto mai, per un’altra ragione: forse non era dimagrito per il digiuno… ma piuttosto perché non era soddisfatto di sé”.
Il digiuno come necessità
La ragione vera e profonda dell’insoddisfazione del digiunatore non è infatti, come può sembrare, il mancato riconoscimento dei guardiani, dell’impresario, del pubblico che lo ammira ma non sa prenderlo sul serio. Egli è in verità infelice perché non può digiunare illimitatamente. Quando, passata l’epoca d’oro, il digiunatore scade a numero di circo e viene relegato “in vicinanza delle stalle”, e col tempo viene dimenticato da tutti, dai visitatori, dal direttore e dai guardiani, egli può finalmente digiunare illimitatamente, portare la sua arte a perfezione, ma solo per sé e senza più spettatori.
Una condizione paradossale che finisce per mettere a nudo le ragioni del suo digiuno. Ai guardiani che lo trovano rovistando tra la paglia della sua gabbia, ormai in punto di morte, confessa infatti che il suo digiuno non era una prestazione, cui tributare riconoscimento, non era arte, ma era una necessità: “Ho voluto sempre che ammiraste il mio digiuno…e invece non dovete ammirarlo…perché sono costretto a digiunare”. E al custode che gli chiede perché non ne potesse fare a meno, il digiunatore risponde: “Perché non riuscivo a trovare il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato, non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri”.
Che tipo di cibo?
È vano chiedersi se il cibo di cui qui si parla sia un cibo reale o metaforico, fisico o metafisico, perché è l’una e l’altra cosa insieme, ed è l’una cosa perché è l’altra. Se non mangia è perché non c’è sulla terra cibo di cui abbia appetito e ama quindi solo il piacere del digiuno e ha fame solo di digiuno.
Non digiuna per eroismo, per amore, o per ascesi, o per mostrare al mondo i limiti dell’umano, è questo quello che gli altri non capiscono. In questo racconto Kafka ci fa sentire, in negativo, l’immensa forza desiderante legata all’universo del cibo, la felicità del cibo condiviso, e la potenza quasi mitica di un atto che tutti compiono, mangiare.
Un buon bicchiere di birra
Per capire l’importanza che Kafka assegnava al cibo, a un cibo che davvero nutrisse, bisogna accostargli un altro Kafka, un Kafka che pure c’è stato, un Kafka diventato uomo. È il Kafka che, ormai minato irreparabilmente dalla tubercolosi, si è riconciliato con i genitori, con il padre, ha lasciato Praga ed è andato a vivere a Berlino con una donna, Dora Diamant, un azzardo, un’impresa inaudita, colta con le ultime forze, come egli dirà, e che lo scrittore paragona alla campagna di Napoleone in Russia.
Dal sanatorio di Kierling, presso Vienna dove è ricoverato per l’aggravarsi finale della tubercolosi, il 19 maggio 1924 scrive:
“Carissimi genitori…cerco di facilitarmi anche il mangiare, per es. cosa che a te caro papà piacerà, con birra e vino, Schwechat doppio malto e Adriaperle, dal quale ultimo ora sono passato al Tokay. Certo, le quantità in cui viene bevuto e il modo come è trattato non ti piacerebbero, non piacciono neppure a me, ma per il momento non si può fare altro. A proposito, non sei stato in questa zona da soldato? Conosci anche l’Heurige per esperienza personale? Ho una gran voglia di berlo una volta con te in belle grandi sorsate. Perché anche se la capacità di bere non è molto grande, quanto a sete non sono secondo a nessuno. Così ho dunque aperto il mio cuore di bevitore.” (p.137).
E pochi giorni prima di morire:
“Carissimi genitori, … bere assieme “un buon bicchiere di birra”, come scrivete, ne deduco che papà non tiene in gran conto l’Heurige, e in questo, riguardo alla birra, sono d’accordo con lui. Del resto, come ora con il caldo ricordo spesso, siamo già stati due metodici bevitori di birra, molti anni fa, quando papà mi portava con sé alla civica scuola di nuoto.”
Dentro la vita
È la felicità di una bevanda condivisa, di qualcosa di cui si può parlare, di cui resta il ricordo e che riesce a saziare, o dissetare, anche a distanza di anni. È questo il nutrimento di cui tutti sono alla ricerca, e che ora, in prossimità della fine, Kafka riesce finalmente a godere.
In una lettera a Milena, scritta nel 1920, Kafka, che ha visto i profughi ebreo orientali nel grande salone del municipio ebraico di Praga, alloggiati prima della partenza per l’America, confessa:
“se mi avessero lasciato libero di scegliere quello che volevo essere, avrei voluto essere un piccolo fanciullo ebreo orientale nell’angolo della sala, senza traccia di preoccupazioni, il padre discute al centro con gli altri uomini, la mamma, tutta infagottata, rovista negli stracci da viaggio, la sorella chiacchiera con le ragazze e si gratta i bei capelli… E di bambini così ce n’erano così parecchi lì che correvano intorno, s’arrampicavano sui materassi, strisciavano sotto le sedie e aspettavano il pane che qualcuno, uno qualunque – è un popolo – spalmava loro con qualcosa (tutto è commestibile)”.
Questo cibo – un cibo qualunque, semplice, ai limiti dell’insignificanza, che passa forse di mano in mano, a dispetto di ogni regola igienica – è un cibo sempre mangiabile, e lo è perché è tutt’uno con l’organismo vitale, magmatico e senza regole della famiglia-comunità ebraico-orientale. Che sia forse questo il nutrimento che il digiunatore Franz Kafka aveva inseguito e che, ora, finalmente, improvvisamente gli appare non più “dietro alla vita”, ma dentro alla vita?
Claudia Sonino ha insegnato letteratura tedesca a Trieste, Milano e Pavia. Ha trascorso periodi di ricerca e insegnamento in Austria, Germania e Israele. Per Mondadori ha pubblicato Esilio, diaspora, terra promessa. Ebrei tedeschi verso Est (1998), tradotto in tedesco con il titolo Exil, Diaspora, Gelobtes Land?, Jüdischer Verlag 2002) e L’asimmetria del cuore (2006). Per Guerini e Associati ha pubblicato nel 2015 Tra sogno e realtà ebrei tedeschi in Palestina (1920-1948), tradotto in inglese con il titolo German Jews in Palestine, 1920–1948: Between Dream and Reality, Lexington Books, 2016. Nel 2019 per l’editore Giuntina ha curato insieme a Guido Massimo l’edizione critica delle Lettere a Milena di Franz Kafka.
Al suo attivo ha molte altre pubblicazioni.