I due eserciti della Cop28 si danno battaglia senza esclusione di colpi da quasi una settimana. E continuerà così fino a martedì. Mai una conferenza internazionale ha vissuto un conflitto così aspro quale quello che si sta svolgendo a Dubai, meta turistica invasa dalle truppe contrapposte di partigiani dell’energia fossile contro i paladini delle rinnovabili. Da una parte un esercito formidabile, la più potente ed organizzata armata di lobbisti: più di 1.300 esperti mobilitati dalle majors del petrolio alleate per l’occasione con i Paesi produttori di greggio. Dall’altra la compatta schiera dei movimenti ambientalisti, rafforzati per l’occasione da centinaia di scienziati decisi a dimostrare che è già tardi per salvare l’umanità dagli effetti del global warming. L’esito del conflitto è incerto. E tale resterà fino alla fine, fissata per martedì. E anche oltre perché, salvo sorprese, non è previsto un documento conclusivo che sintetizzi le posizioni contrapposte. Ma sarebbe un errore parlare di insuccesso.
Perché la Cop28 non è un insuccesso
Per la prima volta ambientalisti e petrolieri, sia privati che di Stato, si sono affrontati senza troppe ipocrisie. Lo sceicco El Jaber, alla guida degli incontri ma anche rappresentante degli Emirati Arabi Uniti è sbottato, di fronte a Mary Robinson, già presidente dell’Irlanda, gridando che ”È una vita che studio questi problemi, perciò mi sento di dire che non esiste relazione tra inquinamento climatico ed energia fossile”.
Non meno esplicito il numero uno di Exxon, Darren Woods. “Mi sembra – ha detto – che qui si discuta molto su come limitare l’energia fossile, assai meno su come limitare i danni”. La tesi è che usciremo dall’energia solo quando sapremo padroneggiare l’idrogeno o sviluppare il nucleare pulito.
Nel frattempo accontentiamoci di rimedi parziali. Come l’accordo tra Dubai e diversi Paesi africani (Liberia, Zambia, Zimbabwe): una o più potenze produttrici di greggio comprano diritto ad inquinare su larga scala, ma nessuno è stato finora in grado di stabilire un giusto prezzo per l’inquinamento.
Dallo scontro a Dubai al braccio di ferro sui mercati
Lo scontro a Dubai riflette il braccio di ferro sul fronte dei mercati. Il petrolio è reduce da una settimana di profondi ribassi che hanno spinto e quotazioni all’ingiù, poco sopra la soglia di 74 dollari. A favorire il calo, vera manna per le piazze finanziarie già colpite dal caro greggio, è stato il ribasso dei consumi sia in Cina che in Usa, complice il rischio recessione. Ma ad accentuare la tendenza è stata la scelta delle Big Oil di pompare a pieno regime, vanificando gli sforzi di Arabia Saudira e della Russia di tagliare le forniture.
“I mercati hanno dato credito alle compagnie e non all’Opec+ – spiega Antonio Cesarano – perché i Paesi produttori si sono mossi in ordine sparso, su base volontaria senza privilegiare una regìa comune”. Il risultato è che il petrolio, pur con un lieve rialzo in giornata, accusa un ribasso del 13% da inizio anno.
Il greggio rimane “stordito” da cinque pesanti ribassi consecutivi, ieri -4%, che hanno schiacciato la quotazione su nuovi minimi da cinque mesi. Il calo ha preso velocità. Reuters ha rilevato che la produzione petrolifera dell’Opec è scesa a novembre, registrando il primo calo mensile da luglio, a causa delle minori spedizioni da parte di Nigeria e Iraq, nonché dei continui tagli a sostegno del mercato da parte dell’Arabia Saudita e di altri membri dell’Opec +: Vediamo quanto durerà questa situazione degna del Far West, come l’ha definito i rappresentante di una Ong.