Tutto si gioca sulla ricetta giusta per risolvere la crisi economica, con l’inflazione al 138% a settembre e il tasso di povertà almeno al 40%: vincerà il peronista Sergio Massa, ministro dell’Economia uscente che ha ancora velleità di risollevare il peso; o il sistema bimonetario proposto dalla candidata del centrodestra Patricia Bullrich; o ancora la soluzione drastica voluta dall’ultra-liberista Javier Milei, di dollarizzare totalmente l’economia come già fatto da Panama, Ecuador e El Salvador? È questo il dubbio che tormenta l’Argentina alla vigilia del voto di domenica 22 ottobre per il primo turno delle presidenziali: al momento nei sondaggi in testa c’è proprio l’anarco-capitalista Milei, che sta inquietando non poco i mercati e che se dovesse raggiungere il 45% (quasi impossibile) o il 40% con almeno dieci punti di vantaggio sul secondo (improbabile ma possibile), sarebbe subito eletto presidente.
Elezioni Argentina, tra i favoriti Milei, Bullrich e Massa
Altrimenti se ne riparla tra un mese, in un ballottaggio che a questo punto dovrebbe essere con l’uomo dell’establishment, Sergio Massa, abilissimo a destreggiarsi nella palude della crisi ottenendo nuovi finanziamenti sia dal Fondo Monetario Internazionale che anche dalla Cina. Proprio a pochi giorni dal voto Pechino ha spedito a Buenos Aires l’equivalente di 6,5 miliardi di dollari, per il sollievo dello stesso Massa e del presidente Alberto Fernandez, che hanno così potuto onorare qualche impegno commerciale, restituire parte del maxi prestito al Fmi e anche tentare di rassicurare, forse tardivamente, l’opinione pubblica. Alla quale infatti piace sempre di più Milei, nonostante la sua ascesa abbia provocato un ulteriore indebolimento della valuta locale, con il cambio che nel mercato parallelo è esploso a oltre 1.000 pesos per un dollaro. Addirittura negli ultimissimi giorni la vendita della moneta statunitense è stata sospesa, col dollaro cosiddetto blue che non ha più fatto prezzo.
Argentina al voto in mezzo ad una crisi economica senza freni
L’economia argentina è dunque paralizzata, in attesa di sapere chi sarà il nuovo presidente. I mercati sono inquieti, così come i Paesi dell’area: il Brasile, prima economia del continente e principale partner commerciale dell’Argentina, si è detto “preoccupato da un’eventuale vittoria di Milei”, secondo le parole del ministro dell’Economia Fernando Haddad. Anche Lula negli ultimi mesi si è speso molto per l’amico peronista Fernandez, al punto di ipotizzare una moneta di scambio tra i due Paesi per tutelare gli intensissimi scambi di materie prime e prodotti industriali, e al punto da spingere per far entrare l’Argentina nei Brics, come è puntualmente avvenuto poche settimane fa. Questo significa per Buenos Aires, almeno in teoria, un asse più ampio sul quale appoggiarsi, al di là del proficuo rapporto bilaterale con Cina e Brasile, visto che oltretutto i Brics hanno una banca che può finanziare i Paesi membri e oggi l’istituto è governato proprio dall’ex presidenta brasiliana, la “lulista” Dilma Rousseff.
L’incognita Milei
Le prospettive con Milei sarebbero invece di rottura degli schemi internazionali, a iniziare dall’uscita dal Mercosur per legarsi sempre di più agli Usa e al dollaro, la stessa strada intrapresa una ventina di anni fa da El Salvador e Ecuador. Proprio pochi giorni fa parte della stampa sudamericana si interrogava su quali esiti avesse avuto questa scelta nei Paesi citati, oltre a Panama che adotta il dollaro ormai dal 1904. Per quanto la dimensione degli Stati e delle economie non sia paragonabile (l’Argentina è tutt’ora la seconda economia del Sudamerica), è interessante il caso dell’Ecuador, dove peraltro si è appena votato con la conferma della destra e dell’economia dollarizzata. Secondo Goldman Sachs, basandosi sui dati del Ministero delle Finanze ecuadoregno, la valuta Usa ha provocato un crollo nei conti pubblici di Quito, arrivati a registrare una perdita di oltre il 10% del valore del Pil mentre negli anni 90 il saldo era positivo. Tuttavia con il passaggio al dollaro, avvenuto nel 2000, l’inflazione è scesa dal 96% di quell’anno al 7,9% del 2003, e il Pil, che nel 1999 perdeva quasi il 5%, è tornato a crescere. Quale sarà la formula giusta?