Sceso il sipario sulla riunione del Consiglio europeo dell’altro giorno a Granada, resta agli atti che l’immigrazione “è una sfida europea che richiede una risposta europea”, secondo le parole del presidente Charles Michel.
Belle parole, sebbene Bruxelles, nei proponimenti, non sia andata oltre alla decisione di tenere ferma la non-unanimità nel votare gli accordi che vertono sull’immigrazione (e che hanno portato Orban a parlare di “stupro giuridico”), nell’intento di mantenere almeno “obbligatoria” la solidarietà richiesta a tutti i paesi membri nella distribuzione dei migranti che arrivano alle frontiere mediterranee (Italia, Grecia, Spagna).
Certo, c’è stata anche la solidarietà con il governo italiano, invitato a continuare sulla strada intrapresa in Tunisia, che vuol dire in pratica pagare quel paese per fermare in migranti.
Ma poi stop, fine della discussione.
Come se non ci fossero altre strade che quelle di bloccare i barconi, respingerli, talvolta assistere inermi alla morte di migliaia di persone. Non è così.
La Germania formerà migliaia di kenioti e li impiegherà dove manca manodopera
E se facessimo come il Kenya? O meglio come ha deciso di fare la Germania con il Kenya. Parliamo dell’accordo siglato fra il presidente tedesco Scholtz e quello keniota Ruto, poi approvato dal parlamento a Berlino nel giugno scorso, che mira ad accogliere 250.000 giovani africani da formare e impiegare nei settori più in crisi di manodopera.
Che significa capovolgere del tutto la logica che sottende alla questione della immigrazione: guidarla, non esserne travolti.
Per l’Italia è meglio pagare i governi africani. Il caso Rwanda
Sappiamo che anche l’Italia ha firmato, nel tempo, patti con alcuni paesi africani, ultimo appunto la Tunisia, e sia che governasse la sinistra sia la destra. Ma lo spirito è sempre stato un altro: pagare quei governi per impedire che i migranti si imbarcassero, che raggiungessero le nostre coste. Giammai per utilizzarli.
In questi ultimi mesi la suggestione del governo italiano è stata anche quella di seguire l’esempio degli inglesi che hanno previsto di inviare in Rwanda, uno dei più piccoli e poveri paesi dell’Africa, gli immigrati che arrivavano sulle loro coste. Il programma “Rwanda”, prima di Johnson e ora di Sunak, prevede di pagare il governo di Kigali 120 milioni di sterline (pari a 140 milioni di euro) affinché accolga migliaia di richiedenti asilo, in attesa che un qualunque altro paese (tranne il Regno Unito) accetti di ospitarli.
Per dare un’idea di che cosa significhi materialmente per i migranti, la distanza fra le coste tunisine (da dove stanno partendo in questo periodo) e Kigali (la capitale del Rwanda) è più o meno di 8mila chilometri, quasi 10mila da Londra. Il paese, ex colonia tedesca e poi belga, indipendente dal Belgio dal 1962, è noto soprattutto per la carneficina fra le due etnie principali, tutsi e hutu, nel 1994, che provocò all’epoca oltre un milione di morti in 100 giorni, tutsi principalmente. Il presidente Paul Kagame guida il paese da 23 anni, eletto ogni volta con oltre il 90% dei voti. Ed è stato lui a lanciare la proposta di accogliere a casa sua i migranti che nessuno vuole in cambio di quattrini. La stessa Onu, attraverso l’agenzia per i profughi, Unhcr, ha destinato 86 milioni di dollari a favore di Kigali per sistemare in strutture recintate, definiti centri di transito, fuori dalla capitale, oltre 120mila persone, provenienti essenzialmente dalla Repubblica Democratica del Congo (60%) e dal Burundi. Dal 2019 ne sono arrivati anche un altro migliaio dalla Libia. Ma ci sono profughi che arrivano dall’Etiopia, dal Sudan, dal Sud Sudan, dal Mali. Dovunque ci sia una guerra o una crisi africana.
Il mondo “perbene”, gli occidentali essenzialmente, si è accorto della strana economia avviata nel paese africano quando si sono interessati al modello la Danimarca e il Regno Unito. Solo allora si è cominciato a parlare di “deportazioni”.
Ora il programma è stato unanimemente condannato dalla comunità internazionale, dalle Nazioni Unite, all’Unione Europea, passando per centinaia di gruppi e organizzazioni per i diritti umani internazionali, britanniche e anche africane. E il primo volo Londra-Kigali è stato bloccato dalla Corte Europea dei Diritti Umani, aprendo fra l’altro un contenzioso visto che la Gran Bretagna è fuori dalla Ue.
Quindi la strada “Rwanda” si accompagna alle sole politiche che finora sono state applicate per l’arrivo degli immigrati: quella di respingimento (quando arrivano in Europa); quella di prevenzione (quando cercano di partire); e di incarcerazione (quando le prime due hanno fallito). E torniamo alla Germania.
La Germania ha bisogno di 400.000 immigrati qualificato all’anno
Con il numero più alto di richieste di asilo (il 24,7% del totale europeo), il governo di Berlino sta applicando una legge che potrebbe/dovrebbe suggerire un’altra via.
Come quasi tutti i sistemi economici della vecchia Europa, anche quello tedesco manca di manodopera qualificata e giovane. L’agenzia nazionale del lavoro ha anche quantificato questo bisogno: servono circa 400mila immigrati qualificati all’anno.
I settori più carenti di manodopera in Germania
E nello specifico i tedeschi hanno scoperto che 200, delle circa 1200 professioni prese in esame, non possono più essere coperte. Tra i settori più in deficit ci sono i trasporti pubblici, i servizi per alberghi e ristoranti, il comparto della carpenteria meccanica. Senza contare la fatica che fanno i tedeschi per trovare lavoratori per l’assistenza infermieristica, l’assistenza all’infanzia, l’industria edile e la tecnologia automobilistica. E mancano anche camionisti, architetti, farmacisti e specialisti di tecnologie dell’informazione. Insomma una voragine sociale ed economica che il governo di Sholtz ha deciso di prendere di petto, con grande realismo, perché come è stato ricordato anche recentemente dal prof Giulio Sapelli, in un’intervista a Italia Oggi, “nei prossimi vent’anni metà della crescita demografica del pianeta si concentrerà in Africa: nel 2050 gli africani saranno tre volte gli europei. Come ci cinturiamo?”
Che cosa prevede il progetto tedesco-keniota?
Il testo approvato dal parlamento tedesco, come è stato riportato dalla stampa, vuole agevolare l’arrivo di quei lavoratori che servono alla Germania, i quali potranno entrare nel paese attraverso un sistema a punti come già esiste in Canada. Significa che i candidati possono registrarsi nel sistema e guadagnare punti in base ai requisiti personali, compresa l’età, l’istruzione, l’esperienza lavorativa e la conoscenza della lingua. Più punti acquisisci più rapida è l’entrata. Il patto Berlino-Nairobi prevede naturalmente che si aiutino i candidati a raggiungere il livello necessario, attraverso soprattutto le scuole di formazione, in Kenya come in Germania. E anche per quanto riguarda la lingua, si prevede un rapporto fra le scuole professionali tedesche e quelle keniote: si formeranno cioè i prof africani per insegnare il tedesco, si aumenterà il numero delle scuole in cui esso può essere appreso, sia in Kenya sia in Germania. Per i richiedenti asilo arrivati prima del 29 marzo, e in possesso di qualifiche e di un’offerta di lavoro, si prevede uno scambio: permesso di soggiorno come professionisti se ritireranno la domanda di asilo.
Facendo così, Berlino spera di impiegare, come anticipato, 250mila giovani kenioti. Di sicuro non risolverà il grande deficit di manodopera del paese, visto che ne servono quasi il doppio, ma la strada è sicuramente tracciata.
Quali saranno le mosse europee con le elezioni alle porte ?
Tornando ai risultati di Granada: se l’Europa con le sue istituzioni si proponesse di seguire l’esempio tedesco, invece di tentare un’impresa impossibile, come quella di fermare le partenze di chi cerca un futuro, forse si potrebbero risolvere due problemi in una volta sola. Quello dell’invecchiamento della manodopera dovuto a quello della popolazione, comune a tutto il continente; e quello di contribuire alla crescita dell’economia dell’Africa, ora stretta fra i propri dittatori e il ricatto di “amici” non proprio disinteressati, vedi Cina, Turchia o Russia. Proprio perché l’immigrazione è “una sfida europea che richiede una risposta europea”, ripetendo le parole di Michel.
Ma con le elezioni all’orizzonte del Parlamento di Strasburgo è difficile che l’esempio tedesco sia preso in considerazione. Almeno non ora. Ora è meglio gridare all’invasione dei barbari e promettere di alzare muri e barriere: pare che faccia prendere più voti.