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Il petrolio corre verso i 100 dollari. A vincere sono la Russia e l’Arabia Saudita, Biden in grave difficoltà

Secondo gli esperti i prezzi rimarranno alti fino a dicembre, in attesa dell’aumento di capitale di Aramco. Intanto il principe saudita Mohammad Bin Salman dà il via alla Las Vegas nel deserto e sul nucleare stringe rapporti con Israele?

Il petrolio corre verso i 100 dollari. A vincere sono la Russia e l’Arabia Saudita, Biden in grave difficoltà

“Salvo un tracollo dell’economia sono certo che la stretta sulla produzione di petrolio durerà fino alla fine di dicembre”. Hani Abuagla, Senior Market Analyst di XTB Mena, affida questa previsione ad una delle newsletter più ascoltate nel mondo dell’energia. Perché fino a dicembre? “Perché entro quella data – è la risposta – Aramco lancerà un nuovo aumento di capitale per almeno 50 miliardi di dollari. È ovvio che il colosso del petrolio saudita voglia presentarsi al mercato nelle condizioni migliori. Dopo, forse, prevarranno altre considerazioni: il calo della domanda cinese, la frenata della crescita per l’alto livello dei tassi e così via. Non è interesse dell’Opec+ lo scoppio di una crisi globale”.

L’industria Usa del petrolio shale in affanno

Queste riflessioni accompagnano l’ennesimo rialzo dei prezzi che stamane hanno fatto un nuovo passo in avanti verso il tetto dei 100 dollari (Brent sopra quota 95 in mattinata, greggio Wti a 93 dollari abbondanti), sull’onda di un rialzo che dallo scorso giugno, quando il cartello adottò la strategia del taglio della produzione, sfiora il 30%. Un verdetto che premia due vincitori, ovvero Arabia Saudita e Russia e suona come un’amara sconfitta per gli Stati Uniti ed i suoi alleati occidentali. A differenza di quanto accadde un anno fa, la Casa Bianca non ha saputo contrapporre mosse efficaci né tantomeno dividere il fronte dei produttori. Nel 2022 l’amministrazione Usa fece ampio ricorso alle scorte strategiche per sostenere l’offerta e calmierare i prezzi della benzina. Ma questa politica si è rivelata a lungo andare pericolosa perché nel frattempo, è calata la produzione dello shale oil Usa (i depositi del bacino di Cushing sono ai minimi storici) così come gli investimenti delle Big Oil, sordi alle sollecitazioni del presidente. I grandi del petrolio preferiscono distribuire agli azionisti sotto forma di buy back i favolosi utili ricavati dall’aumento dei prezzi piuttosto che impegnarsi in nuove esplorazioni o tantomeno in investimenti nelle raffinerie: troppo alto il rischio di scontrarsi tra pochi anni con un forte calo della richiesta di energia fossile, visto l’aumento delle rinnovabili.

Russia e Arabia Saudita: i vincitori

Il risultato, per ora, ha premiato la scommessa dei due Paesi chiave del petrolio: l’Arabia Saudita, l’unica nazione che potrebbe colmare da sola il gap tra la fame di greggio (oggi, si calcola, mancano 3,3 milioni di barili per soddisfare la domanda) e l’attuale produzione; e, naturalmente, la Russia che è uscita vincente dalla sfida dell’embargo. Mosca, che registra un costo medio di estrazione di 12,8 dollari al barile, è riuscita nei mesi scorsi a fornire petrolio ai Paesi che non praticano l’embargo, ad un prezzo sacrificato, attorno ai 30 dollari al barile. Ma, informa Reuter, i prezzi stanno salendo anche sul mercato parallelo: l’India, ormai il secondo cliente del greggio russo, in questi giorni paga 80 dollari le forniture di oro nero.

Il piano del principe saudita

Ma la situazione premia soprattutto l’Arabia Saudita che può contare su un costo di estrazione inferiore ai 10 dollari. Mohammad Bin Salman ha così potuto dare il via al suo faraonico progetto di sviluppo sul mar Rosso che comporta investimenti per più di 500 miliardi di dollari. Uno sforzo titanico, compresi gli sforzi per diventare una grande potenza sportiva, che, conti alla mano, Riyad può sostenere solo con un prezzo del petrolio superiore agli 80 dollari. Al di là degli aspetti economici, però, la vera novità è geopolitica.

Usa-Arabia Saudita: il punto di non ritorno

Dal 1945 l’Arabia Saudita ha affidato la sua sicurezza a Washington, garantendo in cambio una politica del petrolio in linea con gli interessi Usa. Ma questo patto si è ormai incrinato. Il principe, messo sotto accusa da Biden per l’assassinio del giornalista Adnan Khashoggi, ha deciso di affrancarsi dalla tutela Usa per scegliere una strada autonoma, che l’ha portato ad entrare nel club dei Brics e a praticare una politica estera senza un allineamento culturale o ideologico precostituito. Di qui l’alleanza sul greggio con la Russia e l’apertura verso la Cina. Fin dove può arrivare questa svolta? Mbs si sentirà indipendente solo quando disporrà di un’industria della difesa che lo emancipi dall’Occidente. Perciò, tra i programmi per il 2030 non c’è solo la Coppa del Mondo di calcio o la creazione di un’immensa Las Vegas sul mare, bensì l’obiettivo di produrre in casa almeno il 50% delle armi.

La vera partita si gioca sul nucleare

Gli Usa hanno di recente lanciato un monito all’intraprendente principe, annullando l’accordo tra Rtx (ex Raytheon) e il Regno per una fabbrica di Patriot e di missili Tomahawk, a fronte del sospetto di una possibile collaborazione con aziende russe. Ma la vera partita si gioca sul nucleare. E qui, oltre alla carta cinese, Mbs potrebbe puntare ad una svolta rivoluzionaria: un asse con Israele. Tutto è possibile nel grande gioco del petrolio.

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