E se la soluzione per porre fine alla crisi dell’Argentina fosse di includerla nei Brics, cioè in quel gruppo di Paesi ormai ex emergenti – Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica – che dal 2001 viene riunito sotto il celebre acronimo? La risposta, su due piedi, ovviamente è no: nell’ultimo decennio le economie e i ritmi di crescita di quei Paesi hanno già preso direzioni molto diverse, figurarsi se c’è spazio per un Paese tecnicamente fallito come l’Argentina. Eppure Buenos Aires ci spera ancora, e anche il Brasile, che da qualche settimana esprime la presidente della New Development Bank, conosciuta appunto come banca dei Brics, insiste in quella direzione. A capo dell’istituzione finanziaria multilaterale c’è infatti Dilma Rousseff, ex presidente del Brasile e dello stesso partito di Lula, che è a sua volta della stessa famiglia politica del presidente argentino Alberto Fernandez.
Argentina: Lula in campo
Ma soprattutto, l’economia del Brasile è legata a doppio filo a quella del Paese vicino: l’Argentina è il terzo partner commerciale dietro solo a Cina e Usa, e i due Paesi da anni si contendono il primato mondiale di esportazioni di soia, con il recente sorpasso del Brasile. Principalmente Buenos Aires esporta materie prime e da Brasilia importa prodotti industriali. Proprio per questo, oltre che per dare una mano all’amico in difficoltà, Lula spinge per portare l’Argentina sotto l’ala protettiva dei Brics: per tutelare gli esportatori brasiliani dal rischio di insolvenza delle imprese e dello Stato argentini, che costituiscono un mercato di sbocco dal valore di oltre 10 miliardi di euro l’anno. L’Argentina è in preda ad una crisi senza fine, l’inflazione è ai massimi storici e la liquidità piange: il rischio di non essere pagati per i prodotti esportati è concreto e a farne le spese sarebbe soprattutto il Brasile, ben più di altri Paesi.
Crisi dell’Argentina: un maxi-prestito della Banca dei Brics?
La formula ideale sarebbe quella di un maxi prestito, che di fatto renderebbe Buenos Aires meno dipendente dal Fondo Monetario Internazionale e dunque dalla comunità finanziaria occidentale, finendo sotto la sfera di influenza di Paesi come Cina e Russia. In questi tempi di guerra e di forti tensioni geopolitiche (lo stesso Brasile è sotto osservazione per le posizioni ambigue nei confronti del conflitto in Ucraina) non sarebbe una novità da poco: la seconda economia del Sudamerica sposterebbe il suo asse – non più solo commerciale ma anche politico-strategico – verso oriente, con tutto quello che comporta. Al momento però il regolamento della banca dei Brics non prevede di svolgere operazioni a supporto di Paesi non membri, anche se nella storia una eccezione c’è stata, quando la New Development Bank aiutò il Lesotho, Paese enclave in territorio sudafricano. In alternativa, è sul tavolo anche la possibilità di offrire quanto meno garanzie e linee di credito alle imprese brasiliane che vendono in Argentina.
I vincoli dell’Argentina con il Fondo monetario
Ad oggi Buenos Aires è vincolata con l’Fmi per un maxi prestito da 45 miliardi di dollari concesso poco più di un anno fa, al quale si sono aggiunti questa primavera altri 5,4 miliardi. Anche per questo, la sua economia è ormai “dollarizzata”. Finire in qualche modo nel giro dei Brics consentirebbe invece di sganciarsi da questo meccanismo tossico, che non ha fatto altro che peggiorare la situazione nel corso degli anni: già da qualche settimana, peraltro, il Paese ha annunciato che negli scambi commerciali con la Cina userà come valuta di riferimento direttamente lo yuan, al posto del dollaro. Tuttavia il percorso di questa integrazione è ancora ad ostacoli. Nonostante il pressing del Brasile, ci sono anche perplessità di natura tecnica: la banca dei Brics nasce come fondo per progetti infrastrutturali e focalizzati soprattutto nello sviluppo sostenibile, non di certo per fare da ciambella di salvataggio a partner commerciali esterni, per quanto strategici (la Cina è il primo partner sia del Brasile che dell’Argentina).
Debito Argentina: il rebus rimane, ma Lula va avanti
Inoltre la New Development Bank è una banca a tutti gli effetti, e si sottopone pertanto alla valutazione delle agenzie di rating, che senza dubbio – anche per motivi geopolitici, facendo di fatto capo a Pechino e Mosca – finirebbero per penalizzare la scelta di destinare finanziamenti a fondo perduto ad un Paese che non è in grado di offrire nessuna garanzia. Cosa succede quindi? Alberto Fernandez, prossimo alla scadenza del mandato (e non si ricandiderà) ci spera ancora, Lula insiste perché sa che l’economia del Brasile dipende anche dal miglioramento di quella argentina e Dilma Rousseff promette: “L’operazione non è semplice e non sarà immediata, ma l’apertura a nuovi soci è uno degli obiettivi della banca. Sono stata autorizzata a proseguire le trattative con l’Argentina”. Se ne riparlerà nei prossimi mesi, con l’occhio vigile dell’Occidente.