Oggi gli editori sono circa tremila, ma il loro numero varia e anche di molto, di anno in anno. Quelli però attivi sono circa la metà, sui 1.500, che si spartiscono i 3,4 miliardi di euro di fatturato.
Da Fort Alamo
Nel 2013 per la secolare industria del libro l’inverno sembrava arrivato. Al pari degli altri settori dell’industria culturale era ridotta a una sorta di Fort Alamo (Disney +). L’offerta di Internet sembrava l’esercito di Santana marciante, soverchiante, inarrestabile.
Mentre gli altri settori dei media e dell’intrattenimento cedevano terreno e potere a Internet per diventare una diarchia, l’industria del libro scatenava una controffensiva, questa sì efficace, massiccia, di popolo e con la gente che scrive in prima linea, che, non solo respingeva l’assedio, ma confinava quella offerta in una riserva ben recintata.
… alla crescita
Oggi l’industria del libro nelle sue forme tradizionali, cioè pre-digitali, è tornata a crescere in modo che fa davvero impressione con le librerie che tornano ad aprire i battenti e a prosperare negli affari.
Amazon si sta ritirando pian piano per dedicarsi a settori più cool come la logistica, il cloud e l’intelligenza artificiale. A Seattle non c’è più Jeff Bezos ma Andy Jassy, un ragazzone che ha costruito l’intera infrastruttura cloud del colosso dell’e-commerce ed è lì che, giustamente, vede l’eldorado.
Jeff Bezos, che si è dedicato ai viaggi su Marte, non è più sposato con la scrittrice e filantropa MacKenzie Scott alla quale nel lontano 1994 era venuta l’idea dell’ecommerce dei libri diventandone una delle anime e mantenendo sul pezzo un Bezos che si buttava in tutto quello nel quale vedeva un business, compresi i pannolini.
All’orizzonte
Evviva il libro, allora! Questo ci piace perché il libro ha un radicamento immenso nel nostro immaginario a tal punto, che se si escludono i tascabili, è una tecnologia che è cambiata pochissimo da quando, a Magonza, Gutenberg ha impresso la prima pagina della Bibbia con la sua macchina a caratteri mobili.
Però, come dice John Ford al giovane Spielberg in chiusura di The Fablemans (Prime Video), “attenzione all’orizzonte!”.
E all’orizzonte c’è l’intelligenza artificiale, o meglio quella branca dell’intelligenza artificiale che va proprio a impattare la produzione e la circolazione dei contenuti che sono la sostanza dei libri.
Viene da chiedersi però se l’industria del libro resisterà al nuovo immenso inverno che sta arrivando. Quello dell’intelligenza artificiale, appunto, che andrà a sconvolgere non solo l’industria dei media, ma tutta la società. L’AI è davvero un nuovo principio organizzativo globale, ben oltre che un mero strumento.
Collisione o unione?
Aspettando questa collisione, così come avviene nel bellissimo film di Lars Von Trier Melancholia (Prime Video), sentiamo già un certo sdilinquimento, una sorta di vertigine. Ma più che una collisione, potrebbe trattarsi di un’unione.
E sarà un’unione. Perché io mi chiedo: con che cosa dobbiamo educare l’intelligenza artificiale se non rimpinzandola di conoscenza che è nei libri e purgandola dalle allucinazioni che piglia dalla robaccia che gira sempre più abbondante nei canali del cyberspazio.
Sarebbe un’unione che potrebbe aiutare a mettere fine a un problema che l’industria del libro, specialmente in Italia, ha fin dall’inizio della sua storia: la carenza di persone che nella loro dieta mediatica inseriscono anche la lettura di un libro. La questione non è la forma che prende il contenuto, ma la sua fruizione.
E su questa considerazione che preannuncia il Sol dell’avvenire (al cinema) vi lascio al nostro Michele Giocondi, storico dell’editoria, nonché autore di due libri importanti per chi si appassiona a questi temi: I bestseller italiani 1861-1946 e Breve storia dell’editoria italiana (1861-2018) con 110 schede monografiche delle case editrici di ieri e di oggi. Dai fratelli Treves a Jeff Bezos.
Buona lettura
La nascita del nuovo Stato
Al momento della nascita del nuovo Stato, il Regno d’Italia, il tasso di analfabetismo del paese era del 78%. In pratica solo un cittadino su cinque sapeva leggere e scrivere, con tutte le riserve del caso, poi, come si è evidenziato nel post precedente.
È pertanto fin troppo evidente, e diremmo quasi banale, rilevare che l’industria editoriale del paese avrebbe risentito in maniera pesante di questo dato.
Se poi si considera il livello di grande povertà in cui versavano le classi popolari, è ovvio supporre che questo non spingeva certo a consumi di tipo “culturale”, ma a mala pena, e quando ci riusciva, a soddisfare i bisogni primari di sopravvivenza.
La lunga lotta per debellare l’analfabetismo
Poi, decennio dopo decennio, il tasso di analfabetismo sarebbe diminuito, ma sempre con un ritmo troppo lento, fino a scomparire praticamente del tutto nel corso degli anni Settanta del Novecento. In sostanza, ci volle oltre un secolo per debellarlo.
Era pertanto una base molto esigua quella sulla quale poteva contare l’industria culturale del paese, che si identificava in buona parte con quella editoriale.
La nascita di altre forme di analfabetismo
Però nello stesso periodo in cui si poteva celebrare la vittoria sull’analfabetismo “tradizionale” (o storico), iniziavano a sorgere altre forme di analfabetismo, come quello funzionale, quello di ritorno e quello digitale, contro i quali stiamo ancora combattendo.
Sembra quasi la riprova del fatto che la lotta a ogni tipo di analfabetismo non finisce mai, che la vittoria su di esso non è mai una acquisizione definitiva, ma richiede in ogni epoca uno sforzo continuo.
Altrimenti rimarranno sempre delle sacche più o meno estese di “analfabetismo”: questa lotta ci deve insomma impegnare sempre.
L’industria editoriale
L’industria editoriale si trovò pertanto ad operare in un contesto quanto mai difficile e dovette agire con la massima oculatezza. La prima impressione che si ricava osservando i dati di cui disponiamo, è che l’editoria nazionale si caratterizzò fin dall’inizio per una relativa abbondanza di titoli pubblicati, a fronte però di una limitata quantità di assorbimento, cioè di acquirenti e di libri venduti. In parole povere molti autori, molti titoli pubblicati, ma pochi lettori. E’ questo il dato di fondo che caratterizzò allora, e che continua a farlo ancora oggi, la nostra industria editoriale!
Qualche dato
E partiamo anche qui dai numeri.
Nel decennio 1861-1870 si stamparono di media 3183 opere l’anno (151 di scolastico e 3032 di varia).
In quello successivo, 1871-1880, il numero salì di oltre il 50%, attestandosi a 5046 titoli (120 di scolastico e 4926 di varia).
Nel decennio 1881-1890 salì ancora di un altro 50% fino a raggiungere i 7598 titoli l’anno di media (351 di scolastico e 7247 di varia).
Nel 1891-1900 il numero salì ancora di un 20%: 9019 titoli (627 di scolastico e 8392 di varia).
Notevole crescita a fine Ottocento
In sostanza nel primo quarantennio del Regno si assiste a una continua e prolungata crescita di titoli stampati, che passa dai 3183 del 1861 agli oltre 9.000 del 1900: una crescita di quasi il 300%.
La produzione editoriale corre molto di più di quanto cresca il tasso di alfabetizzazione, che nello stesso periodo passa dal 22% al 52% della popolazione, il che fa circa il 160% di crescita.
Sembra quasi che il paese in fatto di editoria avesse da colmare un distacco con il resto d’Europa, e in questo periodo lo abbia in buona parte colmato. 9.000 titoli l’anno con una popolazione di alfabetizzati del 52% nel 1900, ci può stare. Non è lì, cioè nel numero di titoli pubblicati, il ritardo del paese, bensì nella scarsità di vendite.
Situazione nella prima metà del Novecento
Colmato il distacco, terminata cioè la grande corsa, ecco che il mondo editoriale sembra doversi riprendere dalla fatica impiegata e la produzione di titoli cala notevolmente nel decennio successivo, 1901-1910, fino a scendere a 6.661 titoli di media l’anno.
In seguito la vediamo oscillare per un buon cinquantennio fra i 6.000 e i 10.000 titoli l’anno. Si dovranno infatti attendere gli anni Sessanta e Settanta del Novecento per vedere una nuova crescita sostanziosa.
Produzione editoriale nel secondo Novecento
Torniamo ai dati. Nel decennio 1911-1920 siamo a 9.441 titoli l’anno. In quello successivo 1921-1930 si riscende a 6.964. Si risale nel decennio 1931-1940 a 10.947, per riscendere di nuovo nel 1941-1950 a 7.165. Nel decennio 1951-1960 si risale leggermente a 7.315. Infine nel decennio 1961-1970 si risale massicciamente a 11.014 titoli di media l’anno. Ma la crescita si era verificata già a partire dal 1967, quando la produzione totale era salita in un solo anno a 15.119 titoli, dai 9.182 dell’anno precedente.
In buona parte ciò era dovuto a un diverso metodo di conteggio, che da questo momento considera anche le opere fino a 48 pagine e le ristampe, prima escluse dai calcoli.
Una crescita continua
Da questo momento la produzione di titoli aumenta notevolmente di anno in anno. Nel 1980 escono circa 20.000 nuovi titoli l’anno. È quasi il doppio di quanto stampato dieci anni prima. Ma non è che l’inizio: nel 1990 siamo a circa 30.000 titoli. E la corsa sembra non conoscere limiti.
Nel 2000 abbiamo infatti una produzione complessiva di 55.546 titoli, stampati da 2.927 editori.
Nel 2010 la produzione libraria sale ancora a 63.800 titoli, realizzata però da un minor numero di case editrici: circa 2.700. La tiratura complessiva è di 213 milioni di copie, mentre la tiratura media per opera è di 3.340 copie per titolo.
Nel 2021 sono stati pubblicati (secondo l’ISTAT) oltre 90.195 titoli, per un totale di oltre 200 milioni di copie, stampati mediamente in circa 2.200 copie a titolo, in deciso calo quanto a tiratura, dal dato del 2010.
Di questi 90.195 titoli, 53.861 sono prime edizioni, 30.929 sono ristampe, 5.405 edizioni successive.
Per oltre la metà, circa il 53%, il mercato è costituito dalla varia, che fattura 1,670 milioni di euro, per un totale di 112 milioni di copie; il 28% è dato dallo scolastico, il 19% dall’editoria per bambini e ragazzi.
Una grande mole di pubblicazioni
E’ una massa enorme di pubblicazioni, spropositata per un paese di scarsa lettura come il nostro. Una buona parte di questa marea incontrollata di titoli finisce al macero, c’è chi parla di un buon terzo, e forse anche di più. Una massa di titoli che non passa nemmeno per le librerie, ma va direttamente dalla tipografia al macero.
Di questi 1500 editori attivi, oltre la metà, il 53%, sono microeditori, che pubblicano pochissimi libri l’anno, per un insieme di neanche 5.000 copie stampate globalmente. Il 37% circa sono piccoli editori con una produzione inferiore alle 100.000 copie annue. I medi editori, che raggiungono una produzione annua inferiore al milione di copie sono il 6,7%. I grandi editori costituiscono il 2,5% delle case editrici.
Il grande problema
Il problema di fondo della nostra industria editoriale, che è comunque fra le prime in Europa, quarta dopo Germania, Inghilterra e Francia, e detiene una quota significativa nel mondo, è però la cronica scarsità di lettori.
Chi acquista almeno un libro l’anno è solo il 40% dei cittadini sopra i sei anni, circa 23 milioni di lettori. Fra questi la popolazione femminile rivela una maggior inclinazione alla lettura: il 48% delle donne contro il 35% degli uomini ha letto almeno un libro nel corso dell’anno.
I lettori forti, cioè quelli che leggono almeno 12 libri l’anno, sono circa il 13,8% dei lettori. Il 45,6% dei lettori ne legge al massimo 3 l’anno.
Con questi numeri di lettori, il mercato editoriale è destinato ancora a sopravvivere con grandi difficoltà. Ciò non toglie che vi siano gruppi editoriali di grandi dimensioni che si confrontano alla pari con i maggiori competitor europei. Così come sono presenti editori medi che si battono con coraggio e con buoni risultati, guidati da quel genio italico, altrimenti chiamato anche creatività, che quando ci si mette non è secondo a nessuno, né nell’editoria, né negli altri settori, dalla moda al mobile, dal turismo all’alimentazione, dalla meccanica all’edilizia, e così via…