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La rivoluzione verde Usa mette in crisi l’Europa, divisa su aiuti e fondo sovrano: Biden 2 la vendetta

L’Economist ha dedicato la copertina al New Deal di Washington lanciato dal Presidente Biden non per i secoli futuri ma per i prossimi dieci anni: una sfida che mette in crisi l’Europa alla quale Macron e Scholz cercano di reagire mentre l’Italia balbetta

La rivoluzione verde Usa mette in crisi l’Europa, divisa su aiuti e fondo sovrano: Biden 2 la vendetta

“Sali su una macchina elettrica prodotta in una nuova fabbrica a Detroit e vai verso Sud. Arrivi in Ohio dove gli stabilimenti dove si producono le batterie della tua auto sorgono a fianco degli impianti per i semiconduttori destinato all’industria privata ma anche al Pentagono. Fermati e fai il pieno con l’energia in arrivo dalla nuova centrale nucleare appena in augurata in West Virginia poi comincia il tuo viaggio nel cuore degli Usa. Attraverserai prima gli sterminati campo di pale eoliche del Kansas, poi la distesa di pannelli solari dell’Oklahoma. Infine, fai un’inversione verso il Golfo: il tuo viaggio finisce tra le acque, ad ammirare l’impianto nuovo di zecca che produrrà idrogeno verde, l’energia pulita per la nuova America”.

Così l’Economist che dedica la copertina al new deal di Washington s’immagina la nuova America così come potrebbe emergere dai piani del presidente Biden.

La rivoluzione verde americana

Mica tra un secolo ma nel 2033, tra soli dieci anni. La sfida, però, è già partita.
E riguarda pure noi, perché, pur di attrarre i capitali e le competenze necessarie per avviare la rivoluzione ambientale l’America ha messo in moto una batteria formidabile di sostegni finanziari, sgravi fiscali e misure a favore dei nuovi investimenti: 2 mila miliardi di dollari in tutto, a partire dai 376 miliardi dell’Ira (Inflation Reduction Act) per rilanciare infrastrutture, industria dei chips e provvedimenti per l’economia verde.
Una grande scommessa che Biden ha lanciato perché, scrive il settimanale, “in realtà non aveva alternative”. Solo così i democratici possono sperare di attrarre i consensi della sinistra ambientalista, della classe operaia ammaliata da Trump, dell’industria della difesa nonché dell’alta tecnologia.
Perciò è assai difficile che il presidente faccia marcia indietro cedendo alle pressioni europee.

Una minaccia per l’Europa

Nasce così una vera e propria macchina da guerra che minaccia da vicino l’economia del Vecchio Continente, tra l’altro frenata da regole che rendono difficile una risposta. Il Financial Times, al proposito, cita la testimonianza del Ceo dell’industria chimica belga Solvay. “L’Ira – dice il manager Ilham Kadri -distribuisce sostegni attraverso agevolazioni fiscali facili da ottenere, che Bruxelles non ha invece il potere di concedere, perché le tasse sono una competenza dei singoli Paesi membri”.
Il risultato? “L’azienda già ha ricevuto i fondi Usa dopo pochi mesi. Non solo. Anche lo Stato della Georgia si è impegnato con 27 milioni di dollari di incentivi fiscali statali e locali”. Nello stesso periodo la richiesta di sovvenzioni in Francia si è tradotta “in un viaggio lungo e difficile con molta burocrazia per poi ricevere quasi niente”. Ancor più severa Vaitea Cowan, co fondatrice di Enapter, una start up che ha brevettato una tecnologia per produrre idrogeno verde, “Avrei bisogno – dice – di quattro persone a tempo pieno solo per capire cosa ha da offrire la Ue in termini di finanziamenti e come poter accedere al sostegni”.

UE si spacca sugli aiuti di Stato

Non è solo questione di burocrazia, ma anche di quattrini e di volontà politica. il bilancio comunitario è troppo piccolo per interventi su larga scala: E gli stati membri, a partire dai più ricchi, sono restii a finanziare un intervento comune. In attesa del sospirato Fondo sovrano di Bruxelles, i soldi sul tavolo restano sempre gli stessi, avanzati da altri programmi di sostegno. E così, in assenza di vero denaro fresco, il grosso degli aiuti sarà delegato ai singoli Paesi grazie alla deroga sugli aiuti di Stato. Con la prevedibile replica di quanto avvenuto con la pandemia: la Germania ha erogato da sola il 53% dei sussidi europei, sette volte tanto l’Italia. Il rischio insomma è che le aziende di casa nostra debbano subire sa gli effetti del protezionismo Usa che del frazionamento del mercato unico, conseguenza della concorrenza sleale dei partners.

L’incognita pesa anche sui tassi

L’offensiva Usa mette così a nudo ancora una volta le difficoltà della costruzione europea. E i limiti della ripresa. Difficile che in questo quadro possa marciare l’idea del presidente Macron, appoggiata da Italia e Spagna, di un investimento comune nell’ordine del 2% del Pil, sufficiente a rispondere agli Usa. E non mancheranno gli effetti sulla politica monetaria. “Il livello dei tassi neutrali quando cioè le banche centrali non sono né espansive né restrittive sta salendo per ragioni strutturali di lungo periodo” ha scritto Sylvain Broyer di S&P. “Gli shock subiti dal commercio globale dopo la pandemia e la necessità di rendere più ecologiche le nostre economie implicano un riorientamento delle catene di approvvigionamento. Questo processo richiederà necessariamente maggiori investimenti, un nuovo equilibrio del risparmio e quindi tassi più alti”.
La fine della stretta, dunque, potrebbe essere assai più lontana di quel che non credono i mercati finanziari.

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