Il 2023 si avvia su due nuovi paradigmi per lo scenario internazionale: la policrisi globale e la nuova guerra fredda tra Usa e Cina. Paradigmi che arrivano in una fase del ciclo economico nel quale le rassicurazioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI) sui rischi di recessione non modificano un quadro geopolitico ove i Paesi avanzati dimezzeranno la propria crescita economica nel 2023, rispetto al 2022 all’1,2% dal 2,7%. Lasciando la ribalta nuovamente a India e Cina a guidare la riscossa degli altri Paesi emergenti, che hanno reagito all’impennata dell’inflazione, e alla crisi energetica e alimentare conseguenti, con grande ritardo e difficoltà tuttora persistenti ma senza perdere un intento di alleanza politica sempre molto forte. E se Trump aveva avviato la fase di chiusura del mercato Usa, più “glocalizzato” che mai, uscendo dall’accordo Trans Pacifico, il suo successore ha proseguito sulla stessa strada intensificando il confronto/scontro con la Cina.
La nuova fase della globalizzazione si chiama delocalizzazione
La globalizzazione da manuale – misurata sulla diffusione degli scambi internazionali e sull’apertura dei mercati internazionali globali – ha seguito varie fasi negli ultimi due secoli correndo in parallelo alle rivoluzioni industriali che ne hanno definito l’accelerazione grazie al portato d’innovazione produttiva, tecnologica sino all’avvento dell’intelligenza artificiale. E dal momento che siamo entrati in una nuova fase, detta Industry 5.0, dove la tecnologia che aveva dettato il dibattito del Meeting di Davos pre-Covid va a braccetto con l‘impegno umano verso un benessere sostenibile planetario, penso che la globalizzazione sia entrata in una nuova fase e abbia evidenziato un livello di costi e svantaggi superiori ai vantaggi che aveva sino a ora portato. Dove sono i Paesi che sviluppano la tecnologia, anche per quanto riguarda infrastrutture e sistema dei pagamenti, a dominare sugli altri succubi di cambiamenti climatici nefasti e catene del valore produttivo che si accorciano a loro discapito. La globalizzazione ha colpito i lavoratori e gli Stati che non si sono affrancati da modelli produttivi schiacciati dalla competizione sui prodotti a basso costo provocando un aumento delle disuguaglianze all’interno di questi Paesi, più che fra gli stessi Paesi.
Quelli che son stati capaci di investire o avevano già uno stato sociale solido si sono rafforzati, mentre i più deboli, anche politicamente, e meno avveduti hanno subito perdendo qualsiasi beneficio netto dall’apertura globale.
Chi vince e chi perde nella guerra commerciale Usa-Cina
Il caso del Vietnam è invece emblematico e vincente. Grazie a salari più bassi della Cina e un elevato tasso di alfabetizzazione e di lavoratori specializzati, il Vietnam ha puntato sull’elettronica raddoppiandone le esportazioni in dieci anni e approfittando di quelle sanzioni Usa verso la Cina che hanno convinto molte imprese da Apple a Nike a delocalizzare, rispetto alla Cina stessa.
La battaglia a forza di Chips Act, e quindi di miliardi in investimenti dedicati – 280 miliardi di dollari dagli Usa e 43 miliardi di euro dall’Unione Europea – vanno al nocciolo della questione: alleggerire la dipendenza dalla Cina che ormai si è portata avanti su più fronti, non ultimo quello della divisa digitale.
La guerra tra Usa e Cina per il dominio tecnologico
In un sistema che si polarizza sempre più con una governance che perde d’identità – con la Nato e il G20 incapaci di prese di posizione decisive sulla guerra, in corso da un anno, o sul clima -, il Governo americano e quello cinese giocano una partita soprattutto sul dominio tecnologico contraddistinto anche dal fenomeno del reshoring, quindi dalla delocalizzazione opportunistica delle aziende che scelgono i Paesi che offrono fattori produttivi e condizioni fiscali ottimali verso una nuova logistica globale per pochi “fortunati”.
Per l’Italia un futuro più rosa
L’Italia dal canto suo viene graziata dall’FMI evitando sulla carta per ora una crescita negativa nel 2023, ma nella corsa all’impiego di capitale umano di qualità perde la partita con gli oltre 6 mila di expat (espatri). Risorse ad alta specializzazione tecnica che certamente farebbero comodo a un Paese che dopo la spinta sulla digitalizzazione post Covid rischia di sedersi nuovamente sugli allori di un invidiabile tenuta macroeconomica, superiore agli altri partner europei, ma che necessita di impegno di lungo termine sui capitoli delle energie rinnovabili e delle infrastrutture digitali, con una piena attuazione del PNRR.
La Bce resta sugli scudi
In questo nuovo risiko mondiale dove i mercati finanziari vedono con favore ai tassi dei mutui che scendono interpretando un cambio di rotta più “morbido” della Banca centrale, la Bce resta però sugli scudi mentre l’Ue lancia una nuova Agenda del Futuro basata proprio su innovazione, ricerca e progettazione industriale ad alta specializzazione, anche grazie all’istituzione di un Fondo sovrano.
Parola d’ordine: non sottovalutare i colpi di coda dell’inflazione e gestire questa nuova fase di incertezza sicuramente “globalizzata”, quella rispetto a catene di fornitura globale che potranno tornare a dispensare benefici diffusi solo con politiche sostenibili e lungimiranti.