Dalla stagione stragista alla mafia imprenditrice. In mezzo oltre 60 omicidi e la costruzione di un impero economico difficile da quantificare e localizzare. Possono essere riassunti così i 30 anni di latitanza di Matteo Messina Denaro, arrestato il 16 gennaio in una clinica specializzata in cure oncologiche nel centro di Palermo. Nella notte, i carabinieri del Ros e la procura di Palermo sono riusciti ad individuare il suo covo nel centro abitato di Campobello di Mazara, nel trapanese, poco lontano da Castelvetrano, paese d’origine del boss.
Dalle stragi all’imprenditoria mafiosa
Sempre ben vestito, abiti firmati, orologi di lusso. Nella vita di Matteo Messina Denaro l’apparenza è stata una componente fondamentale. Nonostante la latitanza lo costringesse a mantenere un profilo basso, non ha mai rinunciato a nulla. Gli piaceva mostrarsi elegante, ostentare la sua ricchezza e il suo potere tramite oggetti costosi e ricercati. Da giovane amava vantarsi di tutto. Omicidi compresi. “Ho ucciso tante persone da riempire un cimitero”, diceva con una punta d’orgoglio. Quante persone abbia realmente ammazzato forse non lo sapremo mai, ma secondo le numerose condanne a suo carico, Messina Denaro avrebbe partecipato come mandante o esecutore a circa sessanta delitti. Tra i quali quelli dei giudici Falcone e Borsellino e del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito che lui stesso ordinò di strangolare e sciogliere nell’acido dopo quasi due anni di prigionia. E poi l’attentato a Maurizio Costanzo a Roma, la strage di via dei Georgofili a Firenze e quella di via Palestro a Milano. All’epoca Messina Denaro aveva solo 30 anni, ma la scia di morte alle sue spalle era già molto lunga.
Con l’arresto di Totò Riina e l’ascesa di Bernardo Provenzano, la mafia decise un primo, grande, cambio di passo. Le stragi facevano troppo rumore, i morti ammazzati spingevano lo Stato a reagire con forza e veemenza. A cavallo tra gli anni ottanta e gli anni novanta, Cosa Nostra, a suon di ergastoli, perse pezzi troppo importanti per la sua sopravvivenza. Già nel dicembre del 1987, con la sentenza di primo grado del Maxiprocesso, arrivarono 19 ergastoli e condanne a 2665 anni di reclusione (quasi tutte confermate cinque anni dopo in Cassazione) suddivise tra 460 imputati. Diventato capo di Cosa Nostra, Provenzano capì dunque che occorreva cambiare strategia, passando dal frastuono stragista di Riina e Bagarella, in cui lui stesso aveva avuto un ruolo di primo piano, alla strategia della sommersione mafiosa. Nel silenzio, la mafia avrebbe avuto un margine d’azione molto più ampio. E così è stato.
Nel frattempo Messina Denaro continuava il suo lavorio mafioso nascosto nell’ombra. È a lui che si deve la seconda grande svolta della mafia siciliana. Cosa Nostra diventa imprenditrice. Continua a garantirsi la lealtà dei pesci piccoli grazie ai legami di sangue, si sostituisce allo Stato dando lavoro a chi non ce l’ha. Passa dal pizzo e dalle estorsioni all’impresa, a una partecipazione attiva all’economia nazionale. Servendosi di prestanome e uomini fidati, il boss trapanese costruisce un impero miliardario.
L’impero miliardario di Matteo Messina Denaro
Come racconta Lirio Abbate su Repubblica, nei primi anni della sua latitanza Messina Denaro ha fatto talmente tanti soldi da non riuscire più a contarli, doveva pesarli.
Non c’è settore economico in cui non abbia investito, capitano di un’industria mafiosa che ha portato i suoi soldi sporchi ovunque, ripulendoli e mettendo il “vestito buono” agli uomini d’onore.
Edilizia, turismo, ristorazione, grande distribuzione, sale da gioco, sanità sono solo alcuni dei business che portavano ricchezza a Messina Denaro e a Cosa Nostra. Il fiuto per gli affari non gli è mai mancato: fu anche uno dei primi in Sicilia a comprendere il potenziale e a mettere soldi sulle rinnovabili e sull’energia pulita. Ma sarebbe un errore imperdonabile credere che abbia limitato i suoi affari all’interno dei confini della Trinacria. Le braccia del suo impero si estendono in tutta Italia, si diramano in mezza Europa e arrivano fino al Centro e al Sud America.
Tra conti in paradisi fiscali, prestanome, penetrazioni illecite in attività apparentemente specchiate, quantificare l’importo del suo patrimonio è praticamente impossibile. Nessuno sa quanti soldi abbia realmente maneggiato e quante siano le attività a lui riconducibili. Come spiega il giornalista Roberto Galullo sul Sole 24 Ore si può però cercare di percorrere un’altra via, cercando il denaro che lo Stato è riuscito a sottrargli nel corso degli anni. Tra confische e sequestri in attesa di ablazione definitiva, durante la sua latitanza, lo Stato ha scovato e sottratto al boss beni mobili e immobili per almeno 4 miliardi di euro. Solo negli ultimi mesi sono stati circa 150 i milioni sequestrati dalle diverse forze dell’ordine.
Nell’articolo del quotidiano economico milanese si cita anche un report della Direzione Nazionale Antimafia, in cui si legge che “Le novità di maggiore rilievo hanno riguardato l’aspetto più qualificante della Cosa nostra trapanese ovvero il profilo economico-imprenditoriale, evidenziando la diversificazione degli interessi dell’organizzazione mafiosa, che ha saputo individuare ambiti più innovativi e fortemente remunerativi dell’economia legale (quali il settore del trattamento dei rifiuti speciali, il turismo, i trasporti, la grande distribuzione alimentare, la produzione di energie alternative a cui è strettamente connesso l’acquisto di terreni per richiedere finanziamenti comunitari, ma anche la penetrazione nelle aste pubbliche per recuperare i beni sequestrati e, infine, i giochi e le scommesse online) nei quali investire risorse e verso i quali rivolgere attenzioni criminali”.
Il mafioso businessman non aveva limiti. La sua ricchezza, nutrita dal silenzio, ha continuato a crescere nel corso dei decenni e forse solo adesso, dopo il suo arresto, gli inquirenti riusciranno a ricostruirla per intero. Ciò che è certo è che, se già all’inizio degli anni novanta, Messina Denaro per contare quanto denaro possedeva aveva bisogno di una bilancia, oggi probabilmente gliene servirebbe una industriale, di quelle che contano i quintali. Peccato che nel carcere di massima sicurezza in cui sarà rinchiuso sarà difficile farla arrivare.