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Mercati 2022, un anno da dimenticare: Borse in netto ribasso e Waterloo per bond e Btp. Tre consigli per il 2023

Dopo le delusioni del 2022, la speranza dei mercati è di ripetere la riscossa del 2009 e molti elementi la avvalorano. Ma attenzione ai cigni neri sempre in agguato

Mercati 2022, un anno da dimenticare: Borse in netto ribasso e Waterloo per bond e Btp. Tre consigli per il 2023

E chi l’ha detto che chi ben comincia è a metà dell’opera? Il 2 gennaio scorso, primo giorno di contrattazioni del 2022, il titolo Apple superò la soglia dei 3mila miliardi di dollari di valore, tra gli hurrà degli analisti pronti a scommettere sui prossimi, straordinari primati magari al traino di nuove avventure, tipo l’I-car a guida autonoma progetto che, ahimè, la Mela ha per ora rimesso nel cassetto, vista la mala parata. Già, perché nonostante il colpo di reni finale, Apple chiude l’anno con una valutazione di poco superiore ai 2mila miliardi di dollari. E non è andata meglio agli altri campioni dell’economia digitale. Apple, Amazon, Alphabet, Microsoft, Meta e Tesla, tutte assieme hanno lasciato sul mercato quasi 6.000 miliardi di dollari di valore, una cifra che corrisponde al naufragio dei risparmi di mezzo mondo o qualcosa di più: chi ha scelto l’S&P 500, il listino guida di Wall Street si ritrova un quinto in meno di quanto investito un anno fa. Chi ha puntato sulla tecnologia del Nasdaq ha perso un terzo del suo investimento.

Europa meglio degli Usa, Parigi spinta dal lusso

  • Un po’ meglio è andata a chi ha scelto Piazza Affari, cavandosela con una perdita attorno al 13%, più o meno la stessa perdita del tedesco Dax. Grazie al lusso la migliore è Parigi, sotto del 9% scarso: la domanda Usa ha saputo sostituire la Cina.
  • La Cina, complice la chiusura imposta dalla politica Covid zero, termina il 2022 con una perdita intorno al -23,30% (in euro), peggior risultato su base annua dal 2018.
  • Solo India (+5% in euro) e Brasile (+17%) hanno chiuso l’anno in territorio positivo. 

Bond e Bpt, peggio di una Waterloo

Ma chi si è tenuto alla larga dalle azioni facendo rotta verso il “porto sicuro” delle obbligazioni scoprirà, il più delle volte solo all’atto di leggere sul resoconto annuale spedito dal fondo di investimento, di aver affrontato con forti perdite la tempesta più violenta degli ultimi secoli: occorre risalire al ‘700, prima di Napoleone, per rivedere un salasso paragonabile a quello patito dai Treasury Usa o dai Bund tedeschi. Il future sul Treasury decennale ha perso il -19,20%, quello del Bund tedesco il -22%, quello del Btp, infine, il -25%.

L’elenco delle disgrazie non finisce qui: alla perdita del 14 per cento dell’indice Msci World delle borse mondiali (misurato in euro) e alle perdite sui bond vanno aggiunti il deprezzamento dell’euro (del 7 per cento rispetto al dollaro) e la perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione del 10 per cento.

La “colpa” delle banche centrali: 300 rialzi in un anno

Un disastro, insomma, paragonabile alla crisi del 2008/09, quella di Lehman Brothers. Ma con una grande differenza. Allora si trattò di un crollo improvviso ed inatteso dell’edificio della finanza globale (la compianta regina Elisabetta se la prese in pubblico con gli economisti “che non mi hanno detto nulla per tempo”), stavolta il colpevole ha ancora la pistola fumante in mano: la Fed, spalleggiata dalla Bce, ha guidato la corsa al rialzo dei tassi in tutto il pianeta. Più di 300 (trecento) rialzi del costo denaro in dodici mesi che hanno scandito il grande rogo di 14 mila miliardi di dollari bruciati sui soli listini azionari.

Il precedente del 2009: ma la storia si ripeterà?

Ma basta con i numeri. Anzi no. Per gli inguaribili ottimisti, una tribù tenace e irriducibile (basti considerare la pioggia di acquisti dal retail della Corea del Sud sul titolo Tesla), il confronto con la crisi di 14 anni fa suggerisce propositi battaglieri. Allora, il 6 marzo del 2009, l’indice faro delle Borse, lo Standard & Poor’s 500, aveva toccato al ribasso il numero dell’Apocalisse: proprio quota 666. Ma da quel momento i listini hanno registrato un recupero formidabile: otto volte tanto, fino a quota 4.804 proprio il 4 gennaio scorso, proprio prima che dalla Fed si levasse il primo monito contro la minaccia dell’inflazione, fino a quel momento colpevolmente sottovalutata. 

Andrà così anche stavolta? In fin dei conti, ragionamento che fa presa tra i traders, l’inflazione sta gradualmente rientrando, almeno in Usa. I prezzi dell’energia, gas più che petrolio, spaventano meno. E la guerra in Ucraina, prima o poi, finirà. Almeno si spera. Alcuni segnali, la discesa dei noli marittimi, il miglioramento delle reti della logistica e dell’offerta di chips tallone d’Achille dell’auto e di altre industrie chiave, vanno in quella direzione. Di qui la speranza di una robusta inversione di tendenza nella seconda parte del prossimo anno, un evento cui nessun gestore del pianeta intende rinunciare. 

Il mondo post-global corre di meno

Ma andrà così? I prezzi attuali scontano o no il peggio? Non è affatto escluso che, nel corso dell’anno la pressione delle banche centrali si ridurrà, specie se si concretizzerà la minaccia della recessione. Ma, senza ricorrere alla sfera di cristallo, va rilevato che stavolta le cose sono diverse rispetto alla crisi dei subprime. A far decollare allora la ripresa dei mercati finanziari in ginocchio fu il sostegno del denaro a basso costo distribuito a piene mani dalla Federal Reserve, accompagnato dalla politica economica espansiva della Cina, grande opificio dell’economia globale, al traino delle multinazionali Usa e della formidabile macchina dell’industria tedesca. La geopolitica, insomma, svolse allora un ruolo molto positivo, accelerando la corsa dell’economia. La geopolitica, dalla caduta del Muro in poi, è stata decisiva nel trentennio della globalizzazione, in modo discreto, costante e silenzioso. 

Ma oggi la deglobalizzazione, alimentata dallo spettro del Covid e dallo scontro tra Est ed Ovest, si presenta invece come agitata, destabilizzante e pericolosa. Se la globalizzazione ha visto il trionfo degli asset finanziari, la deglobalizzazione vede il riemergere strategico di asset reali e beni rifugio. La sicurezza, che ha un costo, fa premio sull’efficienza, provocando fenomeni nuovi, tipo il reshoring (che altro non è che il rimpatrio di alcune lavorazioni già esportate in Paesi a basso costo), piuttosto che il maggior peso strategico delle materie prime e delle attività reali. 

Prima lezione: puntare sulle materie prime

La prima lezione per gli investitori in vista del nuovo anno è di puntare sui beni reali, a partire dalle commodities, sia quelle legate all’energia tradizionale che alle infrastrutture per le alternative verdi. Non a caso tra i leader di Piazza Affari spicca la performance di Tenaris, destinata a giocare un ruolo di primo piano negli investimenti in Nord America (Messico compreso) ed il recupero di Saipem, a caccia di nuove commesse. Fuori dal Ftse Mib la migliore è D’Amico International Shipping (+295,8%)

Meglio, in questa chiave, un portafoglio concentrato sui titoli minerari necessari per lo sviluppo dell’auto elettrica che non sui titoli dei gruppi a quattro ruote che da Tesla in giù passando per Volkswagen dovranno fare i conti con la penuria di materiali (batterie in testa) ed una concorrenza inasprita dalle dispute commerciali.

Seconda lezione: Btp per sfruttare il calo dell’inflazione

L’impressione, inoltre, è che le banche centrali abbiano tutta l’intenzione di guidare il processo di uscita dall’inflazione facendo tesoro dell’esperienza degli anni Settanta. Allora, più di una volta, la Fed abbassò la guardia troppo presto, favorendo una nuova esplosione dei prezzi. Oggi, di fronte ad operatori finanziari abituati nel corso degli anni a banche centrali benevole verso i mercati finanziari, il rischio è di esagerare con le strette monetarie. Sia negli Usa, dove il costo del denaro arriverà a sfiorare il 5% per cento entro la primavera che in Europa ove non si andrà oltre il 2,50% ufficiale, la soglia limite di sopportazione per Paesi dall’alto debito pubblico, come l’Italia. 

Non sarà facile per il Bel Paese raccogliere quei 310-320 miliardi (compresi i rinnovi) necessari per finanziare la macchina pubblica. Ma gli esperti ritengono che, dopo gli terribili, il livello dei tassi di mercato sia ormai vicino al tetto. 

Di qui un secondo consiglio: un portafoglio di Btp accompagnato da qualche corporate bond di qualità accumulato ai prezzi attuali potrebbe garantire entro 18/24 mesi ritorni ragguardevoli, tali da compensare le perdite accusate nel recente passato. 

Terza lezione: la tecnologia non è da buttar via

Difficile capire se, dopo la dura lezione del 2022, il settore tech (-69% il Nasdaq) possa riprendere la corsa interrotta dall’ascesa dei tassi. La sensazione è che la discesa dei prezzi possa favorire operazioni straordinarie di grande portata. Microsoft, che un anno fa dava il via all’operazione Activision (79 miliardi di dollari) poi bloccata dalla Commissione Federale, potrebbe secondo le voci di mercato dirottare le proprie enormi risorse in direzione di Netflix, una delle società più bersagliate dal ribasso: nel 2022 i grandi dello streaming, tra cui Walt Disney, hanno lasciato sul terreno 500 miliardi di dollari. 

Reuters, invece, scommette sulla separazione di Facebook, gallina dalle uova d’oro, dalle attività del Metaverso che resta una scommessa per ora incompiuta. Morgan Stanley ha previsto per il 2030 che il nuovo mondo digitale arrivi a generare un giro d’affari di 50 miliardi di dollari per i marchi del lusso, considerando che già oggi un giocatore su cinque in Roblox cambia ogni giorno i vestiti del proprio avatar. 

Ma le delusioni non mancano. Il 29 novembre l’Unione Europea ha indetto un party presso Global Gateway, il metaverso dell’Ue costato 387mila euro. Ma alla festa si sono presentati solo in sei: più di 60 mila euro a persona.

Attenti ai cigni neri e alle cose turche

E così via. Non è difficile dispensare buoni consigli a Capodanno salvo scoprire di aver sbagliato di grosso. Se si va a guardare allo scorso gennaio scopriamo che ben pochi guru avevano predetto un anno nero, limitandosi a parlare di “un anno complicato in cui non mancheranno le buone occasioni”.  

E che dire della Fed? Le stime di fine 2021, prima della svolta, prevedevano che i tassi sarebbero rimasti inchiodati a zero fino alla metà dell’anno. Maghi e Cassandre, insomma, non hanno fatto una bella figura, anche se non mancano le attenuanti a partire da due gradi “cigni neri”, in buona parte imprevedibili.

La guerra in Ucraina ha sconvolto ogni possibile previsione, imponendo un’ipoteca pesante sul fronte dell’energia. La mancata ripartenza della Cina, già data per scontata ad inizio anno, ha ridotto in maniera molto rilevante la ripresa dei commerci. Alcuni Paesi, India e Brasile in testa, hanno tratto beneficio dalla fuga degli investimenti dalla Cina e dalla ripresa delle soft commodities. L’embargo nei confronti della Russia ha provocato, a sorpresa, la rivalutazione del rublo, tra le valute più forti. Così come la dissennata politica dei tassi ha spinto al rialzo la Borsa turca +76% (ma a fronte di un’inflazione a tre cifre). 

Piazza Affari? Nel 2000 valeva il doppio

E l’Italia? Riuscirà l’indice Ftse Mib a risalire oltre la barriera dei 24/25 mila punti che da mesi sembra invalicabile per il paniere principale di Piazza Affari? Una domanda imbarazzante perché, mentre i principali indici delle Borse europee hanno segnato più volte nuovi record assoluto anche nel corso del 2022, l’indice milanese vale ancora meno della metà del suo record storico: 51.273 punti, segnato durante la seduta del 7 marzo 2000.  Da allora il listino italiano ha accompagnato la lunga sofferenza dell’economia italiana, prima alle prese con l’offensiva del made in China, poi della profonda fase recessiva innescata dalla crisi del 2008 ma proseguita negli anni dell’austerità. 

Atlantia: Exor e Cerved: più partenze che arrivi

Il 2022, sia sul piano dei prezzi che delle dimensioni del mercato, ha segnato una nuova battuta d’arresto dopo il recupero dell’anno prima. Ma banche, energia ed utilities mostrano segni di vitalità assieme alle vitalità dell’export, punto di forza del quarto capitalismo di casa nostra che, però, stenta a concretizzarsi in un’offerta adeguata sul mercato. Anzi, il 2022 che si sta per chiudere è stato l’anno degli addii. 

Hanno lasciato il listino società come Cerved, Coima Res, Falck Renewables e La Doria, per non parlare del delisting di Atlantia (19 miliardi di capitalizzazione). Altre come Autogrill emigreranno a Zurigo con la fusione con Dufry oppure hanno scelto Amsterdam, come Exor. Numeri alla mano il saldo netto tra ingressi e uscite è negativo per quasi 50 miliardi in termini di capitalizzazione. A fine dicembre 2021 si contavano 232 società sull’Euronext Milano (di cui 74 aderenti al segmento Star), adesso sono scese a 221 (di cui 75 Star) anche se un’altra manciata di aziende ha già annunciato che se ne andranno, come Dea Capital.

E così Piazza Affari si appresta ad ospitare solo società di piccole dimensioni, le 20 neo-quotate nel segmento Growth (5,16 miliardi i tutto il valore al momento del debutto). Fanno eccezione Cnh, De Nora, Technoprobe e Civitanavi cui presto potrebbe aggiungersi Plenitude. Forse. Perché se il listino milanese non darà segni di risveglio, anche il cane a sei zampe sceglierà la strada di un partner finanziario (un private equity) invece della quotazione. 

Ma una Piazza Affari in formato mini rischia di essere un problema in più per il Bel Paese, già alle prese con il minor credito disponibile per la stretta della Bce al finanziamento del fabbisogno. 

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