Il 20 agosto del 1968, esattamente 54 anni fa, 200mila soldati e 5mila carri armati del Patto di Varsavia, guidato dall’Urss, invasero la Cecoslovacchia per porre fine alla Primavera di Praga. Si concluse così il più ampio tentativo di liberalizzazione mai tentato fino ad allora in un paese del blocco sovietico, iniziato il 5 gennaio di quello stesso anno, quando Alexander Dubcek era diventato segretario del Partito Comunista cecoslovacco.
Le riforme di Dubcek
Sostenuto da un’opinione pubblica in fermento e appoggiato con entusiasmo dagli intellettuali, dagli studenti e dagli stessi operai, Dubcek spinse il processo di rinnovamento fino a limiti impensabili prima di allora. Durante gli otto mesi della Primavera di Praga il controllo amministrativo ed economico fu in parte decentrato e ai cittadini furono concesse maggiori libertà, a cominciare da quelle di movimento e di espressione. Furono anche allentate le restrizioni alla stampa. Al termine una discussione a livello nazionale sulla possibilità di trasformare il Paese in una federazione di tre repubbliche (Boemia, Moravia-Slesia e Slovacchia), Dubcek scelse d’imboccare una strada diversa, preferendo dividere la Cecoslovacchia in due nazioni distinte (Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca).
Le differenze rispetto alla crisi ungherese
La Primavera di Praga non fu però un tentativo di occidentalizzare il paese: l’obiettivo era conciliare il sistema socialista con elementi di pluralismo economico e soprattutto politico, compresa la presenza di diversi partiti. A differenza del moto ungherese del 1956, quindi, la primavera di Praga fu sempre guidata dai comunisti e non mise mai in discussione la collocazione del paese nel sistema di alleanze sovietico.
Occupazione e protesta
Tuttavia, il rinnovamento cecoslovacco costituì ugualmente una minaccia intollerabile per l’Unione Sovietica, preoccupata dal possibile contagio che si sarebbe potuto diffondere fra gli altri Stati del blocco orientale. Dopo il fallimento dei negoziati (i sovietici tentarono invano di indurre i dirigenti di Praga a bloccare il processo di liberalizzazione), truppe dell’Urss e di altri quattro paesi del patto di Varsavia (Germania est, Polonia, Ungheria e Bulgaria) occuparono l’intero territorio della Cecoslovacchia.
La “normalizzazione”
L’invasione innescò un’ondata migratoria verso l’Europa occidentale, mentre all’interno del Paese si moltiplicarono le proteste non violente: la più celebre rimane quella dello studente Jan Palach, che a Praga, in piazza San Venceslao, si tolse la vita dandosi fuoco. La Cecoslovacchia entrò così in un cosiddetto “periodo di normalizzazione”: i leader imposti dai sovietici cancellarono le riforme di Dubcek e ripristinarono le condizioni politiche ed economiche precedenti alla Primavera di Praga.
La Cecoslovacchia rimase occupata fino alla caduta del muro di Berlino, che nel 1989 segnò la fine del blocco sovietico.