La Lavazza, storica azienda piemontese del caffè e una delle icone del Made in Italy e del capitalismo familiare, non andrà in Borsa. Non le serve. Del resto, quand’è che un’azienda decide di quotarsi? O quando deve risolvere problemi di successione all’interno della proprietà o, più generalmente, quando cerca capitali sul mercato per finanziare un progetto di sviluppo. Ma non è questo il caso della Lavazza, la cui famiglia detiene il 100% del capitale ma ha già risolto per tempo la divisione tra proprietà e gestione, e soprattutto ha una capacità di generare cassa e una liquidità invidiabili.
PERCHE’ LAVAZZA, BARILLA, FERRERO E TANTI ALTRI CAMPIONI DEL MADE IN ITALY NON VANNO IN BORSA?
Gli investitori dovranno farsene una ragione: al listino di Piazza Affari non vedranno il titolo Lavazza così come, per le stesse ragioni, non vedono altri campioni del Made in Italy come Barilla, Ferrero, Armani e via dicendo.
Le ragioni dello scarso interesse per la Borsa le ha spiegate al Sole 24 Ore Marco Lavazza, uno dei due vicepresidenti del gruppo che festeggia i 125 anni di vita e che sta sponsorizzando i principali avvenimenti sportivi inglesi: da Wimbledon ad Ascot senza dimenticare il calcio. E lo ha fatto facendo parlare i numeri che, molto più delle parole, chiariscono la situazione e le prospettive della Lavazza, giunta ormai alla quarta generazione imprenditoriale. Oggi il gruppo piemontese del caffè ha un fatturato di oltre 2 miliardi di euro, 30 miliardi di tazzine servite, 100 milioni di profitti, 100 milioni di generazione di cassa e 280 milioni di liquidità. Con bilanci così floridi e una situazione patrimoniale così solida a che serve andare in Borsa? E’ quanto sostiene Marco Lavazza che osserva: “Abbiamo la fila delle banche d’affari per andare in Borsa e ci rimproverano pure per la troppa liquidità”, ma la forza intrinseca del gruppo sconsiglia l’approdo a Piazza Affari.
LE AZIENDE CON LIQUIDITA’ ABBONDANTE NON HANNO BISOGNO DELLA BORSA
Il caso della Lavazza, che non è molto diverso da quello di altre icone del Made in Italy, sfata in realtà alcuni luoghi comuni sulla debole propensione delle aziende ad andare in Borsa. Non sempre è l’ossessione del controllo, che pure c’è in alcuni casi, a tenere le aziende piccole e medie lontane dalla Borsa. In altri casi, come in questo, è l’abbondante liquidità nelle casse dell’azienda a rendere superflua la quotazione. Certamente la quotazione potrebbe dare maggior visibilità a un’azienda, ma quando si tratta di gruppi già medio-grandi come Lavazza o Barilla o Ferrero, il problema non si pone. Se poi si aggiungono i costi e in vincoli che la quotazione in Borsa comporta il discorso è chiuso. Ma questa non è buona ragione per cui, soprattutto nella nuova legislatura, le forze politiche non si interroghino e non provvedano a semplificare e a ridurre i costi e gli adempimenti della quotazione in Borsa. Non convinceranno Lavazza o Barilla ma molte piccole aziende probabilmente sì.