“Facite ammuina”. L’antico ordine della Marina borbonica, che serviva a dimostrare che sulle navi da guerra ferveva l’attività, bene si adatta al dibattito che si è sviluppato in Italia sul salario minimo in seguito alla risoluzione approvata dal parlamento europeo che ne consiglia l’introduzione.
Sul salario minimo italiano: 4 piani d’analisi
Si confondono vari piani di analisi: la giustizia sociale, il ruolo dei sindacati, il peso del Governo nell’intervenire in una materia che in buona parte dovrebbe essere lasciata alla libera contrattazione, e infine la necessità di una profonda revisione fiscale per ridurre il carico di tasse e contributi che grava sui redditi da lavoro.
Colpisce che nessuno tra i tanti politici e i numerosi commentatori intervenuti abbia citato la causa principale da cui dipende il fatto che l’Italia sia l’unico Paese europeo in cui negli ultimi trent’anni i salari non sono cresciuti, ed anzi sono scesi di circa il 2%, mentre nei Paesi più avanzati come Germania e Francia sono cresciuti del 30-20%. E cioè nessuno ricorda che in Italia da oltre due decenni il PIL non cresce e che non siamo ancora riusciti a recuperare integralmente la caduta del 2008-2009. E se non cresce il prodotto interno lordo, come fanno a crescere le retribuzioni?
A cascata ne discende che la produttività è stata stagnante, che il carico fiscale è rimasto pressoché identico, mentre sono venute meno le risorse per finanziare gli investimenti pubblici e privati. Insomma è evidente che il sistema Italia non riesce a garantire adeguati posti di lavoro per tutti e retribuzioni capaci di soddisfare le aspettative dei lavoratori. Per cambiare questo stato di cose è necessario fare quei cambiamenti nella funzionalità del nostro sistema, a cominciare dalla scuola, per stimolare la crescita che a noi manca da troppi anni.
Quale dovrebbe essere l’importo del salario minimo in Italia?
È invece demagogico pensare che sia sufficiente fare una legge per innalzare i salari, aiutare i lavoratori più disagiati, e magari sostenere anche i redditi di tutti gli altri mettendoli al riparo dal rischio inflazione.
Per contro l’introduzione del salario minimo, se ben calibrata, può rappresentare uno stimolo al cambiamento delle regole della contrattazione, e quindi del mercato del lavoro, contribuendo a quell’innalzamento della produttività che è propedeutica alla crescita dei salari.
In primo luogo il salario minimo deve essere fissato ad un livello medio non troppo vicino a quello contrattuale e non troppo elevato rispetto ai tanti salari di fatto che ci sono nei settori più marginali della nostra economia. Infatti se rispetto ai 4-5 euro l’ora delle retribuzioni più basse attuali, si arrivasse di colpo a 9 euro si correrebbe il rischio di stimolare la fuga verso il “nero”, oppure molti posti scomparirebbero del tutto.
Invece noi abbiamo una indicazione che può essere posta a base dei nostri ragionamenti e cioè il livello massimo della Cassa integrazione che è di 1200 euro mensili. Di conseguenza il salario minimo dovrebbe essere fissato tra i 6 e i 7 euro all’ora.
Il ruolo di sindacati, industria e partiti
In questo modo si salverebbe anche il ruolo delle parti sociali le quali avrebbero ampio spazio per la contrattazione dei 5 o 6 euro che già oggi nei contratti più grandi eccedono il livello minimo. Ma per fare questo occorre una legge sulla rappresentanza dei sindacati e dei datori di lavoro, e in parallelo una riforma della contrattazione per spostare il peso dai contratti nazionali di categoria a quelli aziendali o territoriali, dove in effetti sarebbe più agevole scambiare incrementi retributivi con miglioramenti delle prestazioni e quindi della produttività. Sembra strano che né il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, né i sindacalisti appaiono disposti ad innovare le regole delle relazioni industriali, ma si limitino a difendere la prassi attuale di contratti nazionali che lasciano poco spazio alla contrattazione aziendale.
Il ministro del lavoro, Andrea Orlando, aggiunge altra confusione dicendo di voler fare un accordo interconfederale per fissare il salario minimo vicino alle retribuzioni stabilite nei contratti maggiori. In questo modo tuttavia, si depotenzierebbe il ruolo del sindacato, dato che le aziende potrebbero limitarsi ad applicare la legge senza perdere tempo a trattare con i sindacati. Naturalmente da parte politica tutto si regge sulla promessa di ridurre gli oneri sociali. Confindustria vorrebbe un taglio di 16 miliardi (un terzo alle imprese e due terzi ai lavoratori), ma la Cgil ribatte che se i soldi arriveranno dallo Stato dovranno andare tutti ai lavoratori, dato che le imprese hanno già avuto abbastanza.
Ma lo Stato dove prende tutti questi soldi? Nessuno lo dice. Eppure partiti e sindacati responsabili dovrebbero tener conto del fatto che la politica monetaria sta cambiando segno e che i tassi d’interesse stanno già salendo. Quindi per un Paese indebitato come l’Italia non è prudente aumentare il proprio debito pubblico.
Nell’imminenza delle elezioni i partiti cavalcano il tema del salario minimo lasciando credere che in questo modo si potrà innalzare di colpo la retribuzione di qualche milione di lavoratori e che magari si troveranno più posti di lavoro anche per i giovani che oggi vanno all’estero, in modo particolare quelli più qualificati, per trovare retribuzioni più elevate e soprattutto prospettive di carriera più attraenti perché basate largamente sul merito e non, come da noi, sul nepotismo o la clientela politica. Spargiamo illusioni, mentre le classi dirigenti si consumano in equivoci dibattiti senza mai sfiorare però i veri problemi che dobbiamo affrontare come paese, se possibile con unità di intenti.