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Tempi duri per le Big Tech: Antitrust sul piede di guerra, Borsa più avara. Ma Amazon batte il sindacato

Si moltiplicano i segnali che spingono verso una revisione del modello di business dei FAANG, sempre più nel mirino dei regolatori da Washington a Bruxelles. E la Borsa fa i conti

Tempi duri per le Big Tech: Antitrust sul piede di guerra, Borsa più avara. Ma Amazon batte il sindacato

“A me Amazon ha cambiato la vita. E’ il miglior contratto che abbia mai avuto. E non dimentico che mi hanno assunto nonostante alcuni precedenti penali”. La signora Esther Jackson, 50 anni, operaia, ha regalato finalmente una buona notizia a Jeff Bezos, merce rara di questi tempi: il colosso dell’e-commerce affonda in Borsa, il 14 per cento in meno venerdì dopo la trimestrale da cui emerge una perdita nel trimestre di quasi 4 miliardi e peggio ancora, un futuro all’insegna dell’incertezza: nel secondo trimestre il colosso potrebbe perdere un altro miliardo oppure guadagnarne tre su un fatturato che balla di cinque miliardi (da 116 a 121 miliardi, secondo le stime della società).

Tempi duri per le Big Tech: ma Amazon si prende la rivincita

Intanto il nemico Elon Musk, protagonista nelle baruffe spaziali per i contratti con la Nasa, giganteggia al Met Gala delle stelle della moda, rubandogli l’attenzione dei fotografi dopo lo sbarco in Twitter e prendendolo in giro per il flop di Rivian (7,6 miliardi di minusvalenza) l’auto elettrica concorrente di Tesla. Ma lunedì, dopo aver investito più di 5 milioni di dollari in pubbliche relazioni, Amazon si è presa una rivincita al deposito LDJ5 di Staten Island. I lavoratori, 618 voti contro 380, hanno respinto la proposta di creare una cellula sindacale della American Labor Union nel deposito. Una decisione in contrasto con quanto deciso un mese fa dai dipendenti del deposito LDJ8 dopo un’aspra battaglia. La frana sindacale, insomma, è tamponata. Per ora. 

Big Tech nel mirino: in discussione è il modello dei Faang

La sensazione, non solo a proposito di Bezos, è infatti che i Big della tecnologia, in borsa e fuori, siano ormai entrati nel mirino delle critiche. Quasi che il prossimo rialzo dei tassi Usa non siano destinato solo ad erodere i margini di guadagno dei FAANG (Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google) ma a rimettere in discussione modelli di business basati sulla crescita esponenziale che, agli occhi dei critici, sono soprattutto espressione di monopoli i cui profitti vanno a scapito della concorrenza. Sembra destinata a ripetersi la situazione di inizio ‘900, quando i baroni dell’energia e delle banche finirono nel mirino di Washington. Con una differenza: stavolta a sparare contro i Big c’è anche l’Unione Europea, scesa in campo in questi giorni con il Digital Markets Act, la legge antitrust che mira a limitare il potere di mercato delle grandi società tech. In più modi. Il commissario Ue Thierry Bréton ha già anticipato che la nuova Twitter nel caso vada un porto l’Opa di Elon Musk, dovrà fare i conti con le regole europee che vanno in direzione opposta alla sua impostazione liberista/libertaria. 

Intanto Apple è finita nel mirino dell’Antitrust europeo. I proprietari di un iPhone possono effettuare pagamenti contactless avvicinando semplicemente il loro dispositivo a un POS, ma possono farlo solo tramite Apple Pay. Ma questo, ha sentenziato la commissaria Margrethe Verstagen”non va bene“: Apple dovrà, secondo l’accusa, concedere ad app terze la possibilità di utilizzare il chip NFC, presente nei suoi iPhone dal 2015, per accedere alla funzionalità tap-to-pay. Una richiesta che cade in un momento in cui la società di Cupertino affronta una crescente pressione per “aprire” il suo iPhone anche agli App Store di terze parti (cpme sentenziato da un tribunale coreano) e probabilmente, anche a rendere il servizio iMessage compatibile con altri sistemi di messaggistica.

Né va meglio a Alphabet e a Meta, (rispettivamente ex Google ed ex Facebook) citate in giudizio dall’Antitrust per un presunto accordo mirato a limitare la concorrenza nella pubblicità online. Un patto di non belligeranza che permetterebbe loro di massimizzare i profitti, arrecando danni agli editori che “fanno affidamento sulle inserzioni online per finanziare i contenuti per i consumatori”.  Non è la prima volta per Google, già condannata anche in appello per 2,42 miliardi di euro per abuso della posizione dominante con il suo servizio di comparazione.

L’elenco è lungo, ma è facile prevedere che si allungherà ancora nei prossimi mesi: i re della stagione della new economy sembrano condannati a pagare il maggior costo degli investimenti (finora foraggiati ad interesse quasi zero dai mercati) proprio mentre l’incalzare della crisi economica incide sui margini (esemplare il tracollo di Netflix, in caduta libera dopo aver perso 200 mila abbonati) e della pressione dei regolatori, sia in Usa che a Bruxelles. La previsione è che, almeno nei prossimi mesi, la Borsa sorriderà solo a chi saprà presentare utili solidi, a prova di tassi in ascesa.

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