Bruno Dallapiccola, uno dei più grandi genetisti a livello internazionale, Direttore Scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, già Professore di Genetica Medica alla ”La Sapienza” di Roma e una vita dedicata alla genetica medica non ha dubbi: questa nuova scoperta non è un punto di arrivo, bensì una nuova ripartenza. Lo scorso marzo la rivista Science, in un numero speciale, ha annunciato il completamento della mappa del genoma umano, portando alla luce il contenuto dell’8% del libro della vita che finora non era stato decifrato, grazie agli studi del consorzio internazionale chiamato Telomere-to-Telomere (T2T). FIRSTonline ha chiesto, in questa intervista, al professor Dallapiccola di spiegare esattamente la portata della scoperta.
Professore, abbiamo avuto notizia della scoperta di quel 8% che mancava per la scansione dell’intero genoma umano, annunciata come clamorosa. Che parte del genoma rappresenta questo 8%? Che ruolo ha all’interno dell’intero sistema? Che cosa la differenzia dal resto ?
Meno del 2% del genoma è costituito dall’esoma, la parte dove sono localizzati i geni che codificano le proteine. Il rimanente 98% non contiene geni codificanti, ma sequenze con funzioni di regolazione. Di fatto una grande centrale di controllo, con interruttori che regolano il funzionamento dei geni. Questo 8% sequenziato recentemente fa parte di quest’ultima categoria, e comprende le regioni centromeriche (le regioni che separano il braccio corto dal braccio lungo dei cromosomi) e telomeriche (le estremità dei cromosomi). Si tratta di regioni che – per le loro caratteristiche strutturali – erano più difficili da sequenziare. Un traguardo importante che completa la mappa del genoma di riferimento. Resta comunque ancora molto lavoro da fare, in particolare per comprendere il significato di tutte le variazioni del genoma e l’impatto dell’ambiente e degli stili di vita sul suo funzionamento.
La prima parte del genoma è stata scoperta oltre 20 anni fa: perché tutto questo tempo per scoprire questa parte più piccola?
Un grande merito l’ha avuto la rivoluzione tecnologica. La scienza molto spesso procede di pari passo con le scoperte tecnologiche. Le strumentazioni e le tecniche attuali hanno reso disponibili nuovi metodi di sequenziamento del Dna e sono state sviluppate nuove analisi computazionali, il tutto con un significativo abbattimento dei costi. Nel 2000 per sequenziare un genoma ci volevano 100 milioni di dollari. Oggi bastano 500/600 euro.
Con la nuova scoperta si parla di completezza dell’informazione del genoma. E’ così o ci sono ancora tasselli da spiegare?
È quasi completa. Per esempio da quest’ultima mappa manca il cromosoma sessuale maschile, l’Y. Infatti il tessuto da cui si è partiti per fare questi studi è la cosiddetta mola idatiforme, un’anomalia del concepimento nel quale è presente solo il genoma materno duplicato. Si è partiti da questo tessuto perché il disporre di un solo genoma anziché di due, come avviene nel concepimento normale, offre un ovvio vantaggio nell’interpretazione dei risultati.
Questa nuova scoperta per quali tipi di malattie sarà importante?
Questa nuova scoperta sarà molto utile soprattutto per comprendere la variabilità tra le persone: tra due soggetti ci sono circa 4-5 milioni di lettere del codice genetico (basi) diverse che spiegano le differenze interindividuali. Le variazioni sono anche alla base di molte malattie complesse come quelle cardiovascolari, il diabete, i tumori, le malattie psichiatriche, le allergie, l’asma. Con i dati del genoma che avevamo a disposizione fin qua ci siamo dedicati molto alle malattie rare, che sono per lo più semplici. La mappa completa del genoma favorirà la conoscenza della componente genetica delle malattie complesse.
Ma sarà allo stesso tempo necessario comprendere il ruolo dell’ambiente, degli stili di vita, dei farmaci che assumiamo, in una parola dell’esposoma con cui veniamo a contatto, che ha un importante effetto di modulazione funzionale sul genoma.
Ci può fare un esempio di questa relazione con l’ambiente?
Prendiamo ad esempio quel chilo e mezzo di batteri presente nel nostro organismo, distribuito nell’intestino, sulla superficie delle mucose e della cute. Si tratta di trilioni di microorganismi che ci portiamo dietro: essi hanno un importante ruolo sulla salute, in condizioni specifiche causano malattie e svolgono un importante ruolo anche nella regolazione dei geni, di cui sappiamo ancora molto poco. Si tratta della cosiddetta epigenetica: non è sufficiente conoscere la sequenza del genoma, ma è anche necessario capire come funziona nell’unità di tempo, nei singoli individui e nei singoli tessuti e come viene modificato dagli stili di vita e dall’ambiente.
Molti danno poca importanza all’influenza dello stile di vita sulla salute, invece lei ci sta dicendo che può agire così profondamente in un organismo da modificare persino il suo Dna?
Esattamente. Ovviamente la presenza di specifiche anomalie cromosomiche o mutazioni in singoli geni sono di per sè sufficienti a causare quadri clinici importanti. In questi casi l’effetto dell’ambiente può essere poco significativo.
Ma nel caso di molte malattie comuni, tra cui quelle che affliggono una ampia percentuale della popolazione adulta, occorre l’azione congiunta della suscettibilità genetica e dei fattori ambientali scatenanti. Uno degli obiettivi della genetica è quello di comprendere le variazioni genetiche che predispongono a queste malattie per costruire dei punteggi di rischio poligenico in grado di riconoscere le persone maggiormente suscettibili.
Come si muoverà la scienza in questo senso?
Già da diversi anni la ricerca si sta muovendo sviluppando i cosiddetti “polygenic risk score”, una sorta di punteggio che indica la relazione tra la suscettibilità a una certa malattia e una certa situazione genetica.
Anche in quest’ottica si stanno sviluppando molti progetti a livello mondiale con l’obiettivo di costituire un profilo della popolazione, perché di fatto è sui grandi numeri che si riescono a decriptare meglio la complessità biologica e le relazioni esistenti tra le malattie e la genetica.
Si è partiti in Gran Bretagna con il progetto dei 100.000 genomi, seguito da altre iniziative come i 500.000 genomi della Finlandia, il milione degli USA (progetto All of us), i 100 milioni della Cina.
L’Italia partecipa al progetto europeo One Million Genomes, che si propone di raccogliere i dati clinici associati a 1 milione di genomi della popolazione generale o dei pazienti affetti da malattie rare, cancro, malattie complesse e malattie infettive. La deadline è alla fine di quest’anno, ma si è in significativo ritardo.
Ora che si ha un genoma intero di riferimento, si vuole vedere come rispondono le varie popolazioni alle varie malattie. L’obiettivo ultimo è arrivare alla medicina di precisione e aggredire più precisamente la malattia, fino ad arrivare a una medicina personalizzata.
L’Italia sta investendo in ricerca?
Non ci sono stati investimenti governativi importanti, ma le cose stanno cambiando. Il Pnrr può costituire una nuova opportunità. Forse per troppi anni il nostro Paese ha visto la ricerca come un costo e non come un investimento. Bisogna agire rapidamente per non aumentare il gap con altri paesi che ci stanno sorpassando.