Ricordate l’assedio di Sarajevo? Fra un mese saranno trent’anni, cominciò il 5 aprile del 1992 e finì il 29 febbraio del 1996. Secondo gli esperti il più lungo assedio della storia bellica del XX secolo. A mano a mano che l’esercito russo avanza verso Kiev, viene evocato sempre di più, perché non è esagerato temere che la capitale ucraina possa fare la stessa fine di quella bosniaca.
Il feroce assedio di Sarajevo a poche centinaia di chilometri da casa nostra
Il soffocamento di Sarajevo da parte dell’esercito dei serbi di Belgrado e quello dei serbi bosniaci cominciò il giorno prima che l’Europa riconoscesse l’indipendenza della Bosnia Erzegovina, evidentemente non un giorno qualunque. Anche in quel caso si voleva impedire a un Paese di scegliere il proprio destino e le proprie alleanze.
Alla fine di quel disastro si contarono 12mila morti, i feriti furono oltre 50mila e i profughi talmente tanti che la popolazione di Sarajevo dopo la guerra risultò il 64% in meno.
I numeri di quella tragedia fotografati nei rapporti ufficiali sono agghiaccianti: nel corso dell’assedio ogni giorno si verificavano in media 329 esplosioni, addirittura il 22 luglio del 1993 ne furono contate 3.777.
Molto prima che la guerra finisse, nel settembre del 1993, tutti gli edifici della città erano stati danneggiati, 35mila distrutti completamente. Tra questi, viene ricordato sempre con la stessa angoscia, la Biblioteca Nazionale di Sarajevo, un luogo di conoscenza e di cultura patrimonio di tutta l’umanità.
Anche qui solo i numeri possono rendere l’idea della tragedia: furono persi per sempre un milione di volumi, 155mila rari o preziosi, 478 manoscritti unici. Si salvò solo l’Haggadah di Sarajevo, il più antico documento ebraico d’Europa, portato lì dagli ebrei sefarditi cacciati dalla cattolica Spagna per essere accolti in terra musulmana. Che dimostra, se ce ne fosse bisogno, che i ruoli di buoni e cattivi nella storia dell’umanità, non sono dati una volta e per sempre. Il prezioso documento era stato messo al sicuro nel caveau della Banca nazionale di Bosnia immediatamente dopo lo scoppio della guerra, decisione che lo salvò dalla distruzione.
Il “tunnel di Sarajevo”
Anche noi italiani abbiamo fatto la nostra parte in quell’assedio. Durante i quattro anni esso fu interrotto solo una volta, tra l’11 e il 12 dicembre del 1992, per consentire di portare aiuti alla popolazione a un gruppo di 500 pacifisti partiti dall’Italia insieme con don Tonino Bello e coordinati dall’associazione Beati costruttori di pace. L’anno successivo, nell’agosto, il gruppo ci riprovò senza successo. In ottobre andò anche peggio, perché il religioso e pacifista italiano Moreno Locatelli fu centrato da un cecchino durante la manifestazione.
Chi conosce bene la storia dell’assedio di Sarajevo, come il Centro Asteria, ricorda come nell’anno più duro, il 1993, per permettere l’ingresso di aiuti umanitari nella città (e aggirare l’embargo delle armi), venne scavato un tunnel, lungo circa un chilometro, che partiva dai sobborghi della città e arrivava fino all’aeroporto, posto sotto il controllo delle Nazioni Unite. Attraverso il “tunnel di Sarajevo” passarono per mesi armi, cibo e materiali di ogni tipo, e perfino l’allora presidente (il primo della Bosnia Erzegovina) Alija Izetbegović su una carrozzella.
L’assedio di Sarajevo: il ruolo dell’Onu e della Nato
Bisognò aspettare la strage del mercato compiuta dall’artiglieria serba di Ratko Mladic, il 5 febbraio del 1994, perché l’Onu decidesse di chiedere alla Nato di intervenire.
Nell’aprile la Nato iniziò una campagna di bombardamenti aerei intorno alla capitale. Poi, dopo un’altra strage di civili, essi si intensificarono: era la campagna Operation Deliberate Force. E i serbi vennero costretti ad arrendersi, il conflitto era finito.
Ma non era finita la storia di chi non vuole accettare la storia.
Ci fu un’altra guerra più tardi, nella ex Jugoslavia, tra il febbraio del 1998 e il giugno del 1999, quella che scatenò la Serbia per il controllo del Kosovo, regione dichiaratasi autonoma da Belgrado abitata soprattutto da albanesi. Anche questa guerra fu terminata dopo un intervento militare della Nato. E Putin la usa spesso come esempio per dimostrare che è stato nel giusto quando ha mosso l’esercito per aiutare le popolazioni russofone del Donbass ucraino: perché la Nato ha potuto aiutare gli albanesi e lui non può farlo con i russi?
Trent’anni dopo si allungano ancora le ombre della guerra in Europa
La Bosnia multiculturale era l’oggetto del desiderio di Croazia e Serbia. Lì vivevano tutti: serbi, croati, musulmani bosniaci. Lo avevano fatto più o meno in pace per secoli, potevano continuare a farlo. Ma, una volta sbriciolato l’edificio comunista, se fosse risultato vincente quel modello, qualcuno sarebbe dovuto tornare a casa, lasciare il potere. Un orrore solo immaginarlo per alcuni tipi di governanti, di qualunque colore sia la loro bandiera.
Anche l’Ucraina è un oggetto di desiderio per la Russia: è un Paese sgangherato, corrotto, abbozzato. Ma è un Paese libero. Da quando è nata, alla fine dell’Urss, nel 1991, l’Ucraina ne ha viste di tutti i colori, con presidenti che si sono succeduti, talvolta improbabili, il più delle volte fragili, ma scelti con il voto. È un brutto esempio per chi invece governa da oltre 20 anni e che alla prossima tornata pensa di farsi eleggere per sempre. Come ormai appare chiaro, anche a chi è stato negli anni più generoso nei confronti di Mosca e della sua storia, è questo il motivo per cui Kiev – secondo Putin -deve essere schiacciata e deve tornare nell’orbita ex sovietica. È stato già detto e scritto: a questo punto della storia Putin ha dimostrato che non è la Nato a fargli paura, ma sono i valori di un mondo che l’Alleanza occidentale esprime. Talvolta a sua insaputa.
Se si salva Kiev, si vendica anche Sarajevo.
La storia si ripete ma a volte sembra non insegni nulla