Alle ultime elezioni amministrative è andato a votare praticamente un elettore su due, il 54,69% degli aventi diritto (e nelle grandi città è andata ancora peggio). La scarsa partecipazione al voto ha radici profonde e si innesta in un persistente clima di scarsa fiducia verso i partiti. Ma c’è qualcosa di più che influisce sui numeri elettorali. La maggioranza delle questioni che cambiano, e in alcuni casi stravolgono, le vite dei cittadini-elettori è sempre meno oggetto del contendere della democrazia partecipativa. Le politiche economiche, quelle sanitarie, ambientali ed industriali, i grandi cambiamenti sul mercato del lavoro, sono tutti argomenti che passano sopra la dimensione politica nazionale e locale. Il Covid ha esacerbato questo progressivo senso di frustrazione verso le regole e i meccanismi della rappresentanza politica. Alberto Baban, già presidente della piccola industria di Confindustria Veneto, ora a capo di VeNetWork Spa, un acceleratore che “mette in rete” più di 60 realtà aziendali, è da sempre un attento osservatore di quello che si muove nello spazio che collega il tessuto produttivo alla società veneta.
Anche al Nord, in quella che viene definita la locomotiva produttiva del Paese, si registra una scarsa partecipazione al voto.
«Sono state comunque elezioni locali, gli elettori si sentono chiamati in causa quando avvertono una sorta di urgenza del voto. Al governo c’è Mario Draghi, una guida forte, che dà sicurezza, molto probabilmente larghe fasce della popolazione sono disinteressate a quello che succede in politica».
Non ci sarebbe bisogno di maggiore partecipazione soprattutto in questa fase economica di ripartenza?
«Viviamo tempi complessi, gli eventi economici e sociali cambiano la vita delle persone in modo velocissimo e violento. Sono in atto dinamiche che stravolgeranno le nostre economie: l’accesso alle materie prime, il loro costo sempre più elevato, i nuovi equilibri che si stanno creando nella manifattura globale. La politica non ne parla».
Gli elettori subiscono solo le conseguenze di queste continue turbolenze.
«La politica non ha nessun interesse a fare proposte di lungo periodo, di visione, perché non sono premianti in termini di consenso. Il gradimento politico si crea solo sulle cose che servono oggi. Il rischio, come si vede dall’affluenza elettorale, è una frattura insanabile tra le generazioni».
I populismi nelle loro varie accezioni però si sono sgonfiati.
«Nel recente passato, in alcuni momenti, siamo stati il Paese meno credibile dell’area euro. La risposta alla crisi è arrivata con il populismo e il sovranismo, fenomeni non identici, ma sovrapponibili. I no euro, gli antieuropeisti che oggi sono al governo e si fingono europeisti di facciata, l’uno vale uno, non ci hanno portato da nessuna parte. Forse lo hanno capito anche gli elettori».
Dal Veneto, sentendo le varie prese di posizione dei corpi intermedi, soprattutto quelli dell’industria, traspare un clima fiducia nel pragmatismo incarnato da Mario Draghi.
«Perché il Veneto sente forte la ripresa economica. Si fida della credibilità di Mario Draghi, del suo essere apolitico e apartitico ma al tempo stesso molto di più di un “tecnico”. I veneti si riconoscono nei suoi tratti, appunto il pragmatismo, la serietà, l’attenzione al lavoro, il profilo basso e quasi silente. Poi Draghi ha detto in più occasioni che non metterà nuove tasse e si dedicherà a spendere bene le risorse del Pnnr».
Questioni strategiche come il Pnnr, o le politiche di transizione ecologica, sono decise ad un livello superiore. Non si crea anche qui il disincanto tra gli elettori?
«Forse è più semplice distinguere i “non votanti” in base all’età. I meno giovani soffrono la mancanza di rappresentanza, di partiti credibili che si sfidano su questioni concrete. Più grave la disaffezione dei giovani, mi preoccupa moltissimo che non sentano l’urgenza di appropriarsi in modo diretto del loro futuro».