Tra i banchieri centrali occidentali è in corso un riposizionamento tattico sull’argomento inflazione. I ragionamenti che circolano nei corridoi della Eccles Building di Washington e a Francoforte fanno supporre che molto probabilmente non si tratta solo di un fenomeno transitorio legato al rimbalzo della domanda mondiale. «Il campanello d’allarme è suonato lo scorso giugno. La Fed si aspettava un rallentamento della spinta inflazionistica che non c’è stato, anzi i numeri mostrano segni di persistenza. Si pensava che la fiammata inflazionistica fosse correlata ad una reazione dopo la deflazione del 2020». Giuseppe Moscarini è professore di economia a Yale, co-Director dei programmi di ricerca di macroeconomia supportati dalla Cowles Foundation e Co-Chair of the Research Group on Labor Markets al National Bureau of Economic Research.
Professore, Jerome Powell sostiene che “i problemi si stanno confermando più forti e duraturi di quanto anticipato”. Lei cosa ne pensa?
«L’inflazione è un fenomeno complesso, influenzato in modo determinante dalle aspettative di famiglie e imprese. La Fed ha provato negli ultimi dieci anni, peraltro con pochi risultati, ad alzare l’inflazione, lo stesso ha fatto la Bce. In Giappone addirittura ci provano dagli anni Novanta. Il punto è questo: finora le aspettative sono state basse e hanno prevalso le forze deflazionistiche, come l’invecchiamento della popolazione e la crescita del risparmio globale».
Fino a qualche settimana fa, però, i banchieri centrali non sembravano preoccuparsene più di tanto.
«Per le banche centrali viviamo in un momento senza precedenti. Si osservano shock settoriali molto evidenti, similarmente a quello che era successo con lo shock petrolifero negli anni Settanta. Negli Usa sicuramente ci sono alcuni fattori da monitorare: l’aumento del costo salariale negli ultimi 6 mesi, la domanda di beni che ha avuto un rimbalzo enorme, la difficoltà a trovare manodopera in molti comparti, come la ristorazione o il turismo e la manifattura. A fronte di tutto questo, le aspettative di lavoratori e imprese sull’inflazione sono cambiate».
Si aggiunge un’altra preoccupazione: il timore che la politica monetaria, come appurato in questo decennio, non abbia più la bacchetta magica.
«Il Quantitative Easing in Europa e negli Usa per la verità è stato molto efficace nelle ultime due grandi crisi. I tassi a zero prolungati ci hanno portato però a quella che viene chiamata “trappola della liquidità”. Il mondo oggi è inondato dalla liquidità: cosa succederà all’inflazione se gli europei e gli americani cominceranno a riversarla nei consumi in modo pesante?».
Una trappola dentro la spirale inflazionistica?
«Le banche centrali in questa prospettiva potrebbero annunciare una stretta monetaria violenta, come fece Paul Volcker nel 1979. Ma le autorità monetarie detengono il loro potere in funzione della loro credibilità. Se annunciano poi devono dare corso agli annunci. Per questo credo che ci confronteremo con sentieri più “morbidi” di innalzamento dei tassi».
Questa stagione inflazionistica sarà influenzata anche dalla transizione ecologica, dalle politiche di conversione energetica, dall’approvvigionamento delle materie prime sempre più complesso. I banchieri centrali hanno gli strumenti per governarla in modo da non creare troppi problemi alla ripresa dell’economia?
«In genere l’energia non è un tema da banchieri centrali. Solo se il prezzo dell’energia dovesse aumentare in modo continuo diventerebbe un problema per l’inflazione. In questo momento mi sembra più che altro una questione di volatilità dei prezzi. I banchieri centrali hanno il dogma dell’inflazione desiderata al 2%, ma si può pensare di convivere anche con una inflazione al 2.5-3%».
Quindi il “collo di bottiglia” venutosi a creare nella ripartenza produttiva, in relazione all’inflazione, è un fenomeno temporaneo?
«Vedremo la nuova struttura della domanda mondiale alla fine del 2022, quando saranno risolti i problemi di sanità pubblica legati alla pandemia. Potrebbe essere modificata anche in modo permanente: meno viaggi, meno turismo di massa, più video conferenze e meno contatti fisici. Sono ancora da valutare anche gli effetti sul mercato del lavoro. Dopo la crisi finanziaria del 2008, che ha sconvolto settori interi dell’occupazione come le costruzioni o la finanza, il mercato del lavoro si normalizzò pienamente solo dopo 6-7 anni».
Sono presumibili, dunque, significativi aumenti salariali in Usa e in Europa?
«È visibile per ora una tensione salariale, soprattutto negli Usa, in alcuni settori. Negli ultimi due trimestri abbiamo registrato invece un aumento considerevole della velocità di spostamento degli occupati tra lavori diversi. Ciò significa che alcuni lavoratori trovano nuovi posti a condizioni più favorevoli, senza per ora toccare la “riserva” dei disoccupati. Se i nuovi posti di lavoro sono più produttivi, questa dinamica transitoria di riallocazione del lavoro aiuta a mitigare la tendenza salariale, di fatto calmierando l’inflazione da lavoro. Se l’inflazione non rientrerà rapidamente entro quest’anno, nel 2022 quando questa riallocazione sarà destinata ad esaurirsi, gli aumenti dei salari nominali potrebbero essere ancora più consistenti».
Crede al potere predittivo che molti social network possono avere nell’analisi delle tendenze economiche?
«Procurarsi dati in tempo reale è molto utile. Sospetto che le banche centrali già lo facciano: penso a Google searches o ai dati sui prezzi che si rilevano su Amazon, più che dai social network. Dubito fortemente però che le big company dei social network vogliano condividere i loro dati con qualcun altro».