Pubblichiamo stavolta una bella pagina di Massimo Mantellini che abbiamo scoperto grazie agli amici di “Sentieri Selvaggi” un think-tank di Roma, diretto da Federico Chiacchiari, che pubblica il più bello e odoroso patinato che c’è in giro (solo cartaceo e ahimè appena bimensile) sulla cultura cinematografica e tante altre culture.
Si tratta di alcune pagine tratte dal libro di Mantellini Dieci splendidi oggetti morti, pubblicato da Einaudi (pag. 152, edizione Kindle: euro 7,99, due ore scarse di lettura).
I dieci splendidi oggetti morti di Mantellini sono: le mappe, il telefono, la penna, la lettera, la macchina fotografica, i giornali, i dischi, il silenzio e il cielo. Ma per Mantellini c’è ancora uno splendido oggetto vivo: il libro.
Noi, però, oggi parliamo di dischi.
Tutto era nuovo, tutto era perfetto
Verso la fine degli anni Settanta, dopo un periodo di grandi dissidi, si rompe il sodalizio artistico fra Lucio Dalla e il poeta Roberto Roversi, che aveva firmato i testi delle canzoni di Dalla per molti anni. Le ragioni delle reciproche incomprensioni oggi non ci riguardano.
Quello che ci interessa è che a un certo punto, improvvisamente, il musicista, clarinettista, cantante, compositore che non ha praticamente mai scritto il testo di una canzone in vita sua e che non ha mai terminato le scuole superiori, deve prendere una decisione.
Per qualche ragione che non sappiamo si butta, sceglie: scrive i primi veri testi di canzoni della sua carriera. Lo fa nel 1977, in un disco con una strana copertina di mare, terra e cielo.
Chi in quei giorni avesse messo per la prima volta sul piatto del giradischi quel vinile, avesse abbassato la puntina e si fosse accomodato in attesa delle prime note, avrebbe ascoltato prima una chitarra, poi un basso, poi il fischiettio di una melodia.
E poi la voce di Dalla che, uscendo dal nulla, inizia a cantare le parole di Come è profondo il mare che lui stesso ha scritto.
Tutto era nuovo, infine. Tutto era perfetto.
Ditto
Qualcosa di simile accadde poco meno di un decennio dopo, sempre dalle parti della musica italiana. Lucio Battisti, orfano dei testi di Mogol, pubblica nel 1986 il primo disco della nuova vita artistica assieme al poeta Pasquale Panella. La canzone che apre quel disco, intitolato Don Giovanni, potrebbe essere tranquillamente la colonna sonora di questo libro e si chiama Le cose che pensano.
A un certo punto, dopo aver richiamato nell’incipit del brano una poesia di Giorgio Caproni, Panella declama e Battisti canta che certe cose prolungano te.
Tutto era nuovo, infine. Tutto era perfetto.
Un oggetto goffo
Novità e perfezione sono rimaste racchiuse per molto tempo dentro un oggetto dall’estetica molto discutibile. Noi oggi tendiamo a non considerarlo troppo, anche perché nel frattempo quell’oggetto ha intrapreso un percorso di rinascita che lo accomuna ad altri simboli di un passato recente: come certe automobili, certi televisori, certe lampade, alcuni altri oggetti iconici.
La carica affettiva che abbiamo depositato sopra simili cose che prolungano te ha giocato in questo un ruolo importante.
Il disco nero di vinile, in ogni caso, comunque lo si osservi, resta un pezzo di plastica dalla forma scomoda e ingombrante: è troppo grande, sottile come una pizza margherita, fragile, attira-polvere, facilissimo ai graffi, da rigirare dopo una trentina di minuti di ascolto. Col senno di poi una specie di Caporetto del design e dell’ergonomia del primo dopoguerra.
… ma con un senso
Il giradischi, con la sua sottilissima puntina da appoggiare fra i solchi delicatamente, è il suo fratello di sangue; e le macchine lava-dischi, costose idropulitrici per audiofili destinate a tamponare le incertezze del design, ne sono la conseguenza inevitabile.
Nonostante questi limiti il disco è stato un oggetto sentimentale potentissimo, un deposito di fitte informazioni molte delle quali, a quei tempi, non diversamente disponibili.
Alla plastica nera erano acclusi spesso i testi delle canzoni e le foto di studio scattate durante la registrazione. Tutte immagini da analizzare con cura: come il cartone rigido che proteggeva il disco e portava alla nostra attenzione foto, grafiche artistiche, memorabili, che davano un senso a quell’ingombrante formato.
… e anche identitario
Il vinile offriva insomma degli “appigli” che nessuno dei supporti successivi riuscirà a mettere a disposizione con tanta abbondanza ed efficacia. Inoltre la copertina del disco invecchiava col tempo, poteva essere utilizzata per appunti, macchiata con le gocce del caffè mattutino.
Dentro questo processo di allargamento di una cosa che ne contiene altre, c’era un nostro spazio per sviluppare un percorso di identificazione: ogni disco che abbiamo amato e perduto, durante un trasloco, alla fine di una relazione, per un prestito non restituito, è diventato il nostro oggetto orfano (direbbe Remo Bodei), una parte di noi che è finita altrove e che laggiù silenziosamente sopravvive.
… come la madeleine
La mia personale madeleine dei dischi in vinile è il primo disco di Peter Gabriel del 1977. Assieme alle canzoni di un artista che ho amato moltissimo, c’era, fra gli “appigli”, quella foto azzurra in copertina.
L’uomo giovane, l’artista, è ricurvo dentro un’auto imperlata di pioggia, il suo volto si intravede appena, come se proteggesse qualcosa; l’auto è una Lancia Flavia di proprietà del fotografo, il fotografo è Storm Thorgerson, che con lo studio Hipgnosis ha prodotto la grafica di decine di dischi memorabili della storia del rock.
[…] Il primo disco di Gabriel dalla copertina azzurra, che mi sono rigirato tra le mani pochi minuti fa, è una di quelle cose che mi prolungano: continueranno a farlo anche quando non ci sarò più. E non solo per la musica che contiene.
Ma che c’entra il supporto con la musica?
[…] È certo che, quali che siano state le ragioni della dipartita del vinile, l’erede che ha preso il suo posto, il cd-audio, possedeva difetti perfino peggiori.
Le canzoni posseggono una loro carica sentimentale, che è indipendente dal supporto – lo dimostra il fatto che oggi, nel momento storico in cui il supporto di fatto è appena scomparso, la musica è fra noi perfino con maggior forza e centralità.
Ma la scelta tecnologica di affidarsi ai cd potrà essere letta come tipica del suo periodo storico, quando, a un certo punto, verso la fine del secolo scorso, ha preso piede qualcosa che chiamerei un fideismo tecnologico e ha immaginato di governare il mondo.
Allora dov’è il problema?
Qual era il problema allora? Una certa diffusa disumanizzazione delle relazioni, compresa quella con gli oggetti, mediata dalla tecnologia. Un salto in avanti, ammirevole nelle sue aspirazioni di rinnovamento, ma non sostenuto dalle competenze intellettuali per gestirlo al meglio.
L’industria culturale che improvvisamente si è trovata avvolta dalla dittatura dei bit senza possedere gli strumenti per dominarla.
Così quando le grandi major discografiche decisero di convertire i loro clienti a nuovi supporti, dentro i quali avremmo potuto trovare più musica, più facilmente utilizzabile, immagini e video e chissà cos’altro, non si accorsero che, lì, mancava qualcosa di importante.
Il risultato è il cd-audio, oggetto del tutto anaffettivo forse richiesto dai tempi, ma freddo e ordinato come la logica dominante.
La tecnologia è inscrivibile nell’arte
Steve Jobs affermò una volta che la sua idea di innovazione era presidiare un bivio: quello – diceva – fra tecnologia e arti liberali. È in questa intuizione fondamentale, che nessun tecnologo ha compreso per un paio di decenni, la ragione profonda del grande successo di Apple.
L’aver capito – molto prima di chiunque altro – che la tecnologia da sola non basta, che se non risponde a un bisogno, e nella società dell’informazione simili bisogni sono quasi sempre culturali e complessi, è destinata a trasformarsi in aspirapolvere: un tubo che succhia qualcosa da un punto per sputarlo in un altro.
La domanda fondamentale che la tecnologia che ha prodotto i cd avrebbe dovuto porsi a quei tempi era: certe cose ti prolungano? Purtroppo, tuttavia, le arti liberali per molto tempo, e un po’ anche ora, sono state espulse dai ragionamenti sull’innovazione perché considerate inadatte e superate.
Brano tratto da: “Sentieri Selvaggi”, n. 9, 2021, pagg. 10-14.