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Il lavoro che ci salverà: ecco come e perchè nel mio nuovo libro

Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo l’introduzione del nuovo libro di Marco Bentivogli, già leader della Fim-Cisl e ora coordinatore di Base Italia, “Il lavoro che ci salverà. Cura, innovazione e riscatto: una visione prospettica”, edizioni San Paolo 2021, pagg. 256, euro 20, che esce oggi in libreria e che suscita riflessioni quanto mai rilevanti su temi cruciali del nostro tempo e sulla necessità di costruire una nuova cultura del lavoro

Il lavoro che ci salverà: ecco come e perchè nel mio nuovo libro

Ho cominciato come studente lavoratore, collezionando per sei anni i lavori atipici (ma ultimamente tipici) delle grandi città, molti dei quali in nero, anche in luoghi impensabili; poi ho fatto per anni il sindacalista dei metalmeccanici. Da quasi un anno, sono un lavoratore autonomo. Mi sono occupato di vertenze, di contrattazione, di collegare l’innovazione tecnologica alla trasformazione del lavoro, alle competenze, al sistema di istruzione. Ora mi occupo di politiche del lavoro e per l’innovazione industriale cercando di costruire insieme ad altri una rete per la generazione di tecnologie e competenze e il loro trasferimento a lavoratori e imprese. Insomma, ho avuto il privilegio di vivere il lavoro da molti punti di vista. Recentemente in un progetto di lavoro mi hanno definito Workitect (“architetto del lavoro”) ed è proprio questo che penso occorra fare: ripensare e progettare le nuove architetture del lavoro, industriali, sociali ed economiche.

Tutto parte non solo dalle vecchie e nuove esperienze della nostra vita con il lavoro, ma soprattutto da una riflessione profonda sul senso del lavoro. Tre sono le accezioni qualificanti della parola senso: significato, sensazione e direzione. Sono altresì gli snodi da affrontare proprio per rimappare il senso del lavoro e iniziare a ripensarlo. Il lavoro è una delle esperienze etiche e spirituali della vita. E il compito di questo libro è proprio quello di contribuire a riscrivere il vocabolario del lavoro. Da qui partono gli anticorpi per arrestare il declino. Bisogna re-imparare a dire “lavoro” e le parole del lavoro se vogliamo crearne di nuovo e ritrovare un rapporto di reciprocità con esso. Oggi il lavoro soffre perché mancano nuove grandi narrative che trovano un comune denominatore per tutte le attività umane connesse al lavoro. Il lavoro e la narrazione su di esso dell’ultimo secolo e mezzo sta velocemente tramontando. Immaginiamo e idealizziamo (anche per mancanza di memoria) il lavoro della civiltà contadina e della grande fabbrica di un tempo.

Occorre, anche per questo, parlare del lavoro che dà dignità alla vita e che ci fa fiorire pienamente. Una volta i ragazzi guardavano con ammirazione i contadini, poi gli operai della grande fabbrica delle loro città. Mi raccontano i vecchi operai che la consegna della prima tuta da lavoro era motivo di orgoglio, da mostrare come una bandiera di identità e appartenenza. Proprio in una fase in cui con il lavoro anche “manuale” di medici, infermieri, forze dell’ordine e protezione civile, ci ha difeso dalla pandemia e la manifattura ha tenuto in piedi l’economia del Paese, è urgente tornare a una narrazione più onesta e sana. La considerazione per chi si rimbocca le maniche, paga tutte le tasse e manda avanti il paese dovrebbe essere massima. Dopo quasi un anno di lavoro autonomo, ho infatti riconsiderato i pregiudizi che avevo su di esso: chi ha sempre avuto solo contratti a tempo indeterminato dovrebbe davvero provare a costruirsi, anche per breve tempo, il proprio reddito giorno per giorno con impegno e intraprendenza, e pagare le tasse fino all’ultimo centesimo.

E, in questa condizione, dovrebbe pure cercare di ottenere un mutuo dalla propria banca, magari sentendosi rispondere: “a noi interessano gli aspetti reddituali, e un lavoro coordinato e continuativo non ci assicura nessuna garanzia”. Provare per credere. In un paese timoroso ed esitante e spesso reazionario rispetto all’innovazione, da qualche anno le parole di Papa Francesco hanno riportato il lavoro al centro e spinto in avanti non solo la riflessione della Chiesa, ma di tutti noi. In questo libro raccolgo e metto a disposizione del pubblico le mie riflessioni sul lavoro e le accosto umilmente a questa potente sollecitazione del Pontefice. Il lavoro è il crocevia delle tre grandi trasformazioni in atto nella nostra società e nel nostro sistema produttivo: digitale, climatico-ambientale e demografica. I mutamenti che sono da queste determinati hanno un impatto dirompente sul lavoro e, al tempo stesso, ne sfidano profondamente il senso.

La tecnologia, in particolare, pur ponendo quesiti – anche di natura etica – può e deve essere considerata una formidabile alleata nell’umanizzazione del lavoro. Sotto questo profilo, le parole di Papa Francesco, le sue Esortazioni e le più recenti Encicliche rappresentano una bussola efficace e un’incitazione concreta a costruire un “nuovo pensiero” del lavoro, non ideologico e finalmente post-novecentesco, che prevalga sulla narrazione negativa del progresso e del lavoro stesso. Riportandolo al centro del contributo sociale della Chiesa, Francesco definisce il lavoro: “libero, creativo, partecipativo e solidale” (EG, n. 192) e, con le Settimane Sociali dei Cattolici Italiani, egli riesce a contaminare culture e a donare alla Chiesa un ruolo ancor più propulsivo, educativo e valoriale nella ridefinizione del ruolo da assegnare al lavoro umano. Il contributo di Francesco, dunque, è un tassello importante nella costituzione di quel “nuovo pensiero” che distrugga le retoriche obsolete e ideologiche sul lavoro, sul mercato e sulla globalizzazione e che, al contrario offra una visione dinamica, non tecnofoba, orientata all’innovazione sociale.

Del resto, le iniziative in merito all’impatto delle tecnologie sul lavoro, come i progetti della Pontificia Accademia della Vita sull’Intelligenza Artificiale, danno l’idea di quanto la Chiesa di Francesco intenda essere presente in termini proattivi in questo che è un raro spazio temporale di progettualità delle nuove architetture economiche, industriali, sociali e civili. Lo dice bene ai giovani convocati ad Assisi in occasione dell’evento internazionale “The Economy of Francesco” nel novembre 2020: “La gravità della situazione attuale, che la pandemia del Covid ha fatto risaltare ancora di più, esige una responsabile presa di coscienza di tutti gli attori sociali, di tutti noi, tra i quali voi avete un ruolo primario: le conseguenze delle nostre azioni e decisioni vi toccheranno in prima persona, pertanto non potete rimanere fuori dai luoghi in cui si genera, non dico il vostro futuro, ma il vostro presente. Voi non potete restare fuori da dove si genera il presente e il futuro”.

“O siete coinvolti o la storia vi passerà sopra. […] Ricordatevi l’eredità dell’Illuminismo, delle élites illuminate. Tutto per
il popolo, niente con il popolo. E questo non va. Non pensiamo per loro, pensiamo con loro. E da loro impariamo
a far avanzare modelli economici che andranno a vantaggio di tutti, perché l’impostazione strutturale e decisionale sarà determinata dallo sviluppo umano integrale, così ben elaborato dalla dottrina sociale della Chiesa”.

Per costruire quella che egli chiama “una diversa narrazione economica”, dobbiamo essere pienamente consapevoli che oggi si schiudono di fronte a noi enormi opportunità di vivere in un ambiente più sostenibile, di lavorare in modo più sicuro, meno faticoso e stressante, e in un sistema economico e produttivo più efficiente. Dobbiamo, invece, contrastare il racconto ansiogeno di un futuro distopico che fa presa sulle persone meno consapevoli. Avremmo dovuto fare i conti da un pezzo con la rivoluzione 4.0, con le opportunità della globalizzazione e del mondo aperto – che Francesco non rifiuta ma, al contrario, chiede di orientare allo sviluppo umano integrale. Secondo i report del World Economic Forum sul futuro del lavoro, il 65% dei bambini che inizia la scuola farà un lavoro che oggi non esiste e di cui non conosciamo neanche il nome. Il cambiamento nel mondo del lavoro è così rapido che nel tempo in cui i bambini di oggi si formeranno, la metà degli attuali impieghi sarà automatizzata.

Questo significa che se da una parte certi lavori non avranno più senso di esistere, dall’altra si faranno spazio nuove occupazioni. Si tratta di mansioni e incarichi che richiederanno competenze nuove e sempre aggiornate. Anche per questo il diritto all’istruzione e alla formazione, adatta alle persone e di qualità, per tutta la vita, è un diritto al futuro. La sfida è lanciata, ma partirà in vantaggio chi anticiperà il cambiamento cercando di indirizzarne la traiettoria con politiche lungimiranti e progettando ecosistemi intelligenti. Il punto è che la rivoluzione digitale è in grado di offrire grandi opportunità alla crescita economica e allo sviluppo dell’essere umano e Papa Francesco ne è pienamente cosciente: il futuro si decide e si pianifica grazie alla capacità di scrivere su un foglio bianco, di individuare e sperimentare soluzioni inedite. Ricordiamo sempre che sono i Paesi che hanno investito di più in tecnologia e formazione ad avere tassi di disoccupazione più bassi: Germania, Corea del Sud e Giappone; e che nei primi due casi i lavoratori hanno salari più alti e svolgono mansioni a più alto ingaggio cognitivo e maggiore valore aggiunto.

La tecnologia ha sempre liberato l’uomo da alcune incombenze e occupazioni per concentrarlo su altre. Questo processo di innovazione non avviene in modo neutrale, ma è guidato da coloro che anticipano il cambiamento. Questi, grazie a una visione più orientata al lungo periodo, sanno progettare ciò che avverrà rendendolo quanto più simile a quello che si desidera. Sono convinto che anche la tecnologia apparentemente più disumanizzante in realtà ci consente con ancora più determinazione e convinzione di valorizzare l’unicità degli esseri umani. La tecnologia di per sé “abbassa la soglia”, ci permette cose un tempo più complicate – come l’accesso diffuso e istantaneo all’informazione –, avvicina le persone e ci mette in condizione di ridurre il nostro impegno in compiti ripetitivi e faticosi, in antitesi con la possibilità di sentirci realizzati. Eppure l’abbassamento di questa soglia non è oggettivo. Occorre dargli un senso: servono i nuovi progettisti, non solo per le singole invenzioni, ma per l’innovazione di sistema, che disegnino uno spazio di vita la cui carica umana si sviluppi in quantità e qualità.

In questo senso parlo di un’esperienza, la nostra, che può diventare a “umanità aumentata”: più autonoma, libera, creativa, più concentrata e sviluppata sugli aspetti unici del nostro essere donne e uomini. Dunque, dobbiamo ripudiare per un attimo il ricatto del breve temine, guardare molto avanti, cogliere i megatrend e il loro impatto sull’economia e sul “mercato del lavoro” e intraprendere politiche che accompagnino la transizione tecnologica per massimizzarne i benefici a vantaggio di tutti e senza “scarto”: individuare le competenze del futuro, ripensare tempi e spazi di lavoro, immaginare un diverso sistema educativo e un nuovo sistema di rappresentanza e dei diritti. Un’attenzione particolare andrà posta sulle persone che attualmente svolgono mansioni ripetitive o routinarie (in maniera più accentuata quelle impiegatizie), che non richiedono grandi competenze o professionalità. Questi sono i posti di lavoro a più alto rischio di sostituzione con macchine, robot o applicazioni della tecnologia dell’informazione.

Queste situazioni vanno gestite con lungimiranza prima dell’esplosione delle crisi sociali, giocando d’anticipo e con programmi formativi su ampia scala e politiche attive finalmente efficaci, per accompagnare le persone più fragili senza lasciarle indietro. Accorciamo il lasso temporale intercorrente fra l’inevitabile scomparsa di alcuni lavori e la nascita di altri a maggiore valore aggiunto, provando a garantire un effetto netto finale positivo che intrecci le nuove dinamiche dei flussi e dei territori, a partire dalle aree interne (nel nostro Paese e nel Mondo) e consentendone il collegamento con il mondo dell’innovazione. Le macchine, infatti, possono produrre risultati positivi per tutti – e lo smart working, di cui scriverò più avanti, è un esempio di un modello organizzativo che crea una combinazione vincente tra tecnologia e uomo – a patto che la progettazione sia un lavoro di squadra che liberi i lavoratori dalle gabbie delle mansioni, consentendo loro di esaltarne l’autonomia, la creatività e la responsabilità.

Un’altra sfida aperta è il modello della “democrazia industriale” che è stato seguito con successo dalla Germania e dai Paesi scandinavi, ma molto osteggiato in Italia, come ha ricordato Edoardo Segantini. Ma – come è accaduto in circostanze analoghe in passato – anche su questo punto è possibile un ripensamento e un cambio di indirizzo. In fondo non c’è nulla come la rivoluzione digitale, con i profondi mutamenti che essa innesca nel rapporto tecnologia/uomo/società/ambiente, a dimostrare che il Santo Padre ha ragione: il futuro è conseguenza del presente, nulla è ipotecato, il catastrofismo è la cifra dei rassegnati, mentre per noi la sfida è aperta e da accettare. È da accettare anche per gli oltre 200 milioni di disoccupati nel mondo, per i quali il lavoro è un miraggio, e per i lavoratori poveri o schiavi e per coloro per i quali il lavoro è solo sudore, fatica, lacrime. Immaginando il mondo dopo la pandemia, da un lato abbiamo paura che tutta l’impalcatura della civiltà si riveli un castello di carta, abbiamo paura dell’azzeramento, ma anche del suo contrario: che la paura passi senza lasciarsi dietro un cambiamento…

E per questo abbiamo imparato a contare i giorni. Dobbiamo acquistare un cuore saggio. Non permettere che tutta questa sofferenza trascorra invano. Dopo anni in cui è andata smarrita la dimensione collettiva del lavoro, ora la conoscenza e la partecipazione, insite nei nuovi paradigmi tecnologici e nei nuovi modelli organizzativi, possono far ritrovare una dimensione alta e identitaria ai lavoratori.

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