Stavolta non è una semplice parata. Sul tavolo dei ministri economici e dei governatori delle banche centrali riuniti fino a domenica a Venezia per il G20 c’è la global tax, la riforma della tassazione mondiale sulle multinazionali che mira a cancellare i paradisi fiscali e a ridistribuire in maniera più equa il prelievo (e soprattutto il gettito) fiscale grazie a un accordo condiviso tra i Paesi dell’Ocse.
Nonostante la ritrosia di alcuni Stati – tra cui Irlanda, Estonia e Ungheria – il via libera del G20 a presidenza italiana sembra essere già in tasca dopo l’intesa di massima raggiunta poche settimane fa in sede Ocse e il precedente via libera dei ministri delle Finanze del G7. Rimangono però ancora 9 Paesi da convincere: 4 di essi sono europei. “Sono molto fiducioso che saremo in grado di concordare questo importante obiettivo al G20 di Venezia. In questo modo taglieremo le gambe all’insana corsa al ribasso sulle tasse e garantiremo alle nostre comunità una base finanziaria”, ha affermato in un’intervista a Repubblica, il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz.
Dopo l’ok dei Paesi del G20, servirà qualche mese per convincere i contrari e per stabilire dettagli e tecnicismi della nuova normativa internazionale. Il prossimo appuntamento cruciale è fissato per ottobre, sempre all’Ocse. Pochi giorni dopo (30 e 31 ottobre 2021) è in programma un nuovo vertice dei Capi di Stato e di Governo del G20.
GLOBAL TAX: COME FUNZIONA
L’accordo sulla global tax si fonda su due pilastri. Il primo stabilisce l’introduzione di un’imposta minima globale del 15% sulle multinazionali con ricavi superiori a 750 milioni di euro. Funziona così: se un’azienda paga le tasse in un Paese in cui la tassazione effettiva è inferiore al 15%, la percentuale che rimane per arrivare a questa soglia dovrà essere pagata nello Stato di residenza, che per le multinazionali Hi-Tech nella stragrande maggioranza dei casi corrisponde agli Stati Uniti. Facciamo un esempio pratico: la multinazionale X paga le tasse nel Paese Y (un paradiso fiscale) che ha una tassazione effettiva sui profitti pari al 6%. A questo punto il 9% che rimane per raggiungere la soglia minima globale del 15% dovrà essere versato nel Paese in cui la multinazionale X fa base. Da questa misura si attende un gettito complessivo pari a 150 miliardi di dollari l’anno.
Il secondo pilastro è un po’ più tecnico e riguarda le multinazionali con ricavi oltre i 20 miliardi di dollari e un margine operativo, vale a dire la differenza tra i costi di produzione e i ricavi derivanti dalle vendite, superiore al 10% del fatturato. Secondo quanto previsto dall’accordo, una porzione dei profitti di queste aziende, pari al 20-30% degli utili che eccedono il 10%, sarà tassato nei Paesi in cui quelle società realizza le vendite, al netto della sede nominale in qualunque paradiso fiscale. Altro esempio pratico: l’azienda X ha un margine operativo del 17%. In base alle regole stabilite, l’Italia avrà la possibilità di tassare il 20% di quel 7% eccedente con le aliquote previste dal suo sistema fiscale. Scopo di questa misura è quello di redistribuire parte del gettito fiscale tra i vari Paesi in cui la multinazionale è opera. Le stime parlano di un possibile gettito pari a 100 miliardi di dollari l’anno.
Ci sono anche due condizioni da tenere in considerazione: la prima riguarda la richiesta degli Stati Uniti di abolire le web tax approvate nel corso degli anni dai vari Paesi, quando la global tax entrerà in vigore (probabilmente nel 2023). La seconda riguarda la richiesta del Regno Unito di esentare le aziende della City dall’applicazione delle nuove regole, poiché già soggette a un regime ad hoc.
GLOBAL TAX: I NUMERI DI UN DUMPING SENZA FINE
Fino a poco tempo fa, un accordo simile sarebbe stato impensabile. La svolta è arrivata lo scorso marzo quando il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e la segretaria al Tesoro Usa, Janet Yellen, hanno cominciato a parlare di una tassa minima globale (la loro proposta prevedeva un’aliquota del 21%) sui profitti delle multinazionali. L’impulso giunto da oltreoceano è stato decisivo per arrivare ad un primo accordo di massima prima al G7 di giugno e poi al meeting Ocse del 1° luglio. Lo scopo, come detto, è quello di contrastare l’elusione e il cosiddetto profit shifting, cioè il trasferimento degli utili delle multinazionali nei Paesi che impongono tasse più basse.
Per capire quanto il problema sia grave, basti pensare che il 40% dei profitti delle grandi multinazionali mondiali è al sicuro nei paradisi fiscali, dove le tasse sono molto più convenienti.
Secondo le stime della Fair Tax Foundation, negli ultimi 10 anni le sei maggiori big della Silicon Valley – Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google and Microsoft – avrebbero pagato oltre 96 miliardi di dollari di tasse in meno rispetto a quelli che sono i rapporti finanziari effettivi. A fronte di ricavi pari a oltre 6mila miliardi, le tasse pagate dal 2011 al 2020 ammontano a 219 milioni, una cifra che in percentuale corrisponde al 3,6%. Il record negativo (o forse positivo per Jeff Bezos) spetta ad Amazon che a fronte di entrate pari a 1,6 trilioni di dollari e profitti pari a 60,4 miliardi, ha pagato solo 5,9 miliardi di imposte sul reddito in 10 anni (il 9,8% degli utili). Quanto avrebbe dovuto pagare? Quasi il doppio (10,7 miliardi).
Anche l’Europa ha i suoi paradisi fiscali. Tra essi c’è l’Irlanda che sulle multinazionali applica una tassazione del 12,5%. Non a caso proprio a Dublino hanno trovato casa colossi come Apple, Google e Pfizer. In base ai calcoli diffusi nel corso della 31esima edizione del Workshop Finanza 2020 organizzato da The European House-Ambrosetti, per l’Italia questo dumping fiscale si traduce così: su circa 27 miliardi di dollari di profitti realizzati nel nostro Paese, l’Italia perde annualmente circa 6,4 miliardi di gettito fiscale. Soldi che vanno in Paesi come Irlanda, Lussemburgo e Olanda. Ma non è l’unico danno. Gli effetti si vedono anche sugli investimenti provenienti dall’estero: in Italia valgono il 19% del Pil (ma i problemi di attrattività vanno oltre le tasse, va detto), in Irlanda il 311%.
GLOBAL TAX: I CONTRARI
Sono 130 su 139 i Paesi Ocse che hanno firmato l’accordo del 1°luglio, Stati che rappresentano il 90% del Pil mondiale. All’appello ne mancano 9: Perù, Barbados, Saint Vincent e Grenadine, Sri Lanka, Nigeria e Kenya. Ma soprattutto Irlanda, Estonia e Ungheria. Cipro non ha partecipato alle trattative.
Per l’Unione Europea il No di 3 dei suoi 27 Stati membri potrebbe rappresentare un problema, dato che in materia di tassazione per adottare direttive e regolamenti, le regole prevedono che ci sia l’unanimità. L’ottimismo però sembra dominare. “Anche quei pochi Stati che non hanno ancora aderito non potranno sottrarsi a lungo a questa travolgente dinamica. Sono anni che mi batto per questo risultato. È un passo storico e senza precedenti verso una maggiore giustizia fiscale globale. Ed è un forte segnale per il multilateralismo e la cooperazione globale, che rafforza la fiducia nei nostri sistemi fiscali”, ha ribadito Scholz a Repubblica. Insomma la linea è chiara: con le buone o con le cattive, questi Paesi saranno costretti a capitolare.